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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 13 giugno 2015
Lo streaming trascina
il mercato digitale: +83%
nel 2014
Mentre il disco fisico continua a calare e il digital download è in flessione, Spotify
e gli altri operatori del settore tengono in vita l’industria discografica italiana. Il
soccorso a un settore in crisi arriva da un servizio che in passato ha provocato le
critiche di alcuni nomi noti della canzone
Quanto vale il settore digitale nel mercato discografico italiano? Stando ai dati
FIMI relativi al 2014, tra digital download e streaming parliamo di un giro
d’affari di 46,8 milioni di euro, pari al 38% del mercato discografico totale.
Un bel salto in avanti rispetto al 2013, quando il giro d’affari superava di poco i
38 milioni e la quota del mercato totale era ferma al 32%.
Il digitale è sempre più protagonista dell’industria musicale italiana, con un
incremento del 23% e una prospettiva futura ancora in crescita. E visto che il
mercato fisico è calato del 5%, è proprio grazie al digitale che il settore ha
potuto guadagnare 4 punti percentuali rispetto al 2013 (122 milioni di euro
rispetto ai 117 precedenti).
Anche all’interno del settore digitale, però, è bene fare una distinzione: il
digital download è sceso da 23 a quasi 20 milioni di euro (-15%), mentre lo
streaming è cresciuto da 14,6 a 26,8 milioni (+83%). Una rivoluzione
dentro la rivoluzione, con lo streaming che nel 2014 ha rappresentato il 57%
del mercato digitale, lasciando al digital download il restante 43% (nel 2013
era addirittura il 62%).
L’impennata dello streaming è frutto soprattutto dell’esplosione del fenomeno
Spotify, che ha trainato anche gli altri operatori del settore come Deezer,
3
YouTube, TIMmusic, Google Play e Vevo. E in questo gioco di scatole
cinesi per capire lo stato di salute del mercato discografico del nostro paese,
è necessaria un’ulteriore distinzione tra abbonamenti ai servizi di streaming
e account free foraggiati dalle inserzioni pubblicitarie. Gli abbonamenti
producono 12,47 dei 26,8 milioni totali del settore, mentre le inserzioni
pubblicitari pesano per oltre 14 milioni.
Numeri in crescita, dunque, che fanno ben sperare per il futuro dell’industria
musicale. Ed è paradossale che il soccorso a un settore in crisi arrivi proprio da
un servizio in passato molto criticato dagli stessi artisti e che invece, a quanto
pare, sta portando sollievo in un momento particolarmente difficile per il
mercato fisico.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 13 giugno 2015
Matteo Zanobini: “La musica
non è solo intrattenimento.
Gusto, ricerca e contenuti
culturali vanno sostenuti”
Nell’attuale mercato, l’unica possibilità di sopravvivenza per l’industria
discografica è puntare su progetti di massa che diano risultati veloci, sacrificando
quelle proposte che invece hanno bisogno di tempi di assimilazione più lunghi. Ma
esiste anche una discografia attenta allo sviluppo di idee che, non potendo contare
su vendite consistenti, avrebbe bisogno di un sostegno delle istituzioni.
Label manager di Picicca, una delle realtà più solide della discografia
indipendente italiana, Matteo Zanobini ha il physique du role del
produttore indie: baffi d’ordinanza, hipster da quando gli hipster erano
faccenda esclusiva di Williamsburg, è uno degli artefici del successo del
fenomeno Brunori (altro socio di Picicca, peraltro).
Indipendente sì, ma non troppo: Picicca collabora proficuamente con le major
dell’industria discografica, a riprova del fatto che gusto e ricerca musicale non
devono per forza corrispondere a una segregazione snob tra qualità e mercato.
E l’approccio di Zanobini ai problemi di un settore in crisi è pragmatico, mai
velleitario, consapevole delle difficoltà e altrettanto risoluto nel proporre
soluzioni.
Secondo te perché in Italia non riesce a passare il messaggio
della musica come settore economico, che muove capitali e crea
occupazione? È un problema culturale, politico, economico?
Culturale, economico e politico. La tecnologia ha reso la musica un bene
immateriale, fruibile in modo gratuito. Del resto se avessimo la possibilità
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di avere gratis un paio di jeans, un’autovettura o un telefono, nessuno si
sognerebbe mai di doverli pagare.
In un mercato così ristretto, l’unica possibilità di sopravvivenza per
l’industria discografica è puntare su progetti di massa che diano risultati
veloci, sacrificando quelle proposte che invece hanno bisogno di tempi di
assimilazione più lunghi. In questo scenario, purtroppo, non è più necessaria
una competenza musicale da parte degli addetti ai lavori. Questa attitudine
rafforza l’idea che la musica sia solo intrattenimento e fa sì che l’industria
discografica sia percepita alla stregua di altri ambiti merceologici di seconda e
terza necessità. Ma esiste anche una discografia (come quella che noi pensiamo
di rappresentare) attenta al gusto, alla ricerca, allo sviluppo di idee e contenuti
culturali che, non potendo contare su vendite consistenti – per i motivi di cui
sopra – avrebbe bisogno di un sostegno delle istituzioni. E per sostegno non
mi riferisco all’erogazione di finanziamenti in ottica assistenzialistica, ma ad
esempio ad agevolazioni fiscali più strutturate, soprattutto in fase di start up.
E’ ancora possibile costruire un successo discografico duraturo in
Italia?
Lucio Dalla ha impiegato 10 anni per ottenere un successo di pubblico,
straordinario anche in termini economici. Perché una cosa del genere possa
accadere oggi, non possiamo sottometterci alla sola mera logica capitalistica.
Intendo dire che il mercato per queste proposte è possibile, ma bisogna
avere le risorse e il tempo per arrivarci. Tra l’altro l’esistenza di un tale tipo
di mercato potrebbe riverberare i propri effetti positivi anche in altri ambiti
economici. Il modello Puglia in questo senso è illuminante: la valorizzazione
politica della cultura e degli eventi collegati ad essa ha contribuito allo
sviluppo di altre attività parallele sul territorio (infrastrutture, turismo,
trasporti).
Come è cominciata l’avventura di Picicca e come è cresciuta nel
corso del tempo? Qual è la divisione dei ruoli tra voi soci?
Picicca è nata nel 2010, in occasione della pubblicazione del secondo album
di Brunori Sas, come naturale evoluzione della collaborazione tra me, Dario
Brunori e Simona Marrazzo. Volevamo occuparci di tutti gli aspetti legati
al ciclo vitale di un progetto artistico. Fin da subito è stata chiara la nostra
attitudine nel voler coniugare la passione con l’aspetto pragmatico. Volevamo
fosse anche un mestiere e non un’attività residuale. Fra noi “soci” i ruoli
6
sono ripartiti così: io mi occupo della parte manageriale, Simona della parte
amministrativa e Dario è il “consigliori”, esperto in fogli di Excel. Adesso tra
collaboratori interni ed esterni siamo una decina.
Il vostro rapporto con le major è molto buono e proficuo. Come è
nato? Con quali rapporti di forze? Quanto si riesce a incidere sulle
scelte dei colossi della discografia?
Il rapporto con le strutture esterne con cui collaboriamo (non solo con le
major) è sempre stato ottimale, perché caratterizzato da una nostra totale
indipendenza artistica. Noi realizziamo le nostre opere in autonomia e poi le
sottoponiamo alla loro attenzione. Se c’è interesse e margine, collaboriamo.
Ad oggi siamo legati alle major per il comparto distributivo ed editoriale.
Intervengono soprattutto laddove non riusciamo ad intervenire con le nostre
forze. A una major non interessa intervenire artisticamente su un progetto
definito come il nostro. Non c’è insomma nessun tipo di ingerenza da parte di
questi partner, ma una proficua collaborazione.
Qual è l’importanza dei live?
Il live è vitale. Buona parte delle risorse arrivano da questa attività.
Come si costruisce il “successo” di un artista senza passare dai
talent?
Un certo tipo di successo, inteso come generalista, passa quasi solo per quei
canali. Esistono “successi” di natura diversa che garantiscono ugualmente una
sostenibilità. Per lavorare in questo senso occorre tempo, cura e dedizione,
oltre alla conoscenza puntuale del tempo in cui si vive e delle sue regole.
I progetti artistici devono avere un messaggio preciso, un contenuto, un
racconto. Ma soprattutto bisogna saperli incarnare e comunicare bene.
Pensare solo in termini musicali adesso è più che mai riduttivo. Detto questo,
il successo mantiene sempre e comunque variabili aleatorie.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Brando | 15 giugno 2015
Banda larga per tutti:
la rinascita del mercato
discografico passa da lì
A parte artisti consolidati (come Ferro, Jovanotti, Vasco) che continuano
a macinare copie su copie e le intuizioni di programmi come Amici, il resto fa
davvero fatica ad uscire o perlomeno ad ottenere i risultati che meriterebbe in una
situazione favorevole
Da più di 10 anni si sente ripetere come un mantra devastante (non solo
nella musica) che è “un momentaccio”. In realtà si tratta solo di una serie di
mutazioni “genetiche” del mercato dovute al cambiamento repentino del
modo di fruire la musica e i suoi contenuti. Il passaggio da fisico a liquido non
è stato indolore e questa è la motivazione vera di una situazione di stallo dove
i numeri sono penalizzati sia per le piattaforme digitali che per la tradizionale
distribuzione e vendita del prodotto fisico.
Il mercato discografico (o discopatico) è in sofferenza da più di un decennio:
i numeri sono davvero bassi, basti pensare alle classifiche che ancora per
tradizione e poca conoscenza sono commentate attraverso la posizione in
classifica ma andrebbero studiati solo con i numeri, cioè con l’effettivo venduto
della settimana, volgarmente detto sell out.
A parte artisti consolidati (come Ferro, Jovanotti, Vasco) che continuano a
macinare copie su copie e le bellissime intuizioni di programmi come Amici
(ormai vero punto di riferimento per il pop italiano) che con Dear Jack, Briga
e The Kolors (una band fortissima) riesce ad ottenere risultati che ricordano
davvero la golden age della discografia, il resto fa davvero fatica ad uscire o
perlomeno ad ottenere i risultati che meriterebbe in una situazione favorevole.
Sarebbe interessante (per capire di cosa stiamo parlando) esaminare le
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copie vendute, per esempio per scoprire che molto spesso addirittura due
copie in più fanno guadagnare due posizioni. Sul digitale i numeri
sono molto bassi; cinque album venduti su iTunes fanno scalare
nell’immediato venti o più posizioni. A questo aggiungiamo che la gente,
non solo i più giovani, è ormai abituata a caricare una playlist da YouTube e
ascoltare gratuitamente tutto quello che vuole.
Lo streaming, che dovrebbe portare alla terza fase, cioè all’abbonamento come
prima forma di guadagno e diffusione della musica, da noi è ancora un’utopia:
gli abbonamenti e i numeri di piattaforme come Spotify (servizio eccezionale)
sono in Italia intorno ai 50 mila all’anno. Non male, ma siamo ancora molto
lontani da una vera rivoluzione streaming. Il passaggio alla banda larga per
tutti in realtà dovrebbe significare una rinascita del mercato. Avendo così
poche persone in percentuale che usufruiscono della banda larga, siamo
costretti ad accettare proposte che vadano bene al grande pubblico della Tv
generalista e delle radio con più ascolti.
Sono convinto che con l’agognato passaggio alla banda larga per tutti,
il mouse supererà la tv e la stampa canonica. È quello che io chiamo
MOUSEPOWER!
La prima volta che ho lavorato a un polo “autonomo” che potesse sviluppare
progetti discografici con la forza di una major e la dedizione di una indie è
stata nel 1992 con l’etichetta Cyclope Rec di Francesco Virlinzi. Siglammo
un accordo con la allora Polygram (Universal Music adesso): io facevo anche
l’artista, i compagni di scuderia erano Carmen Consoli, Mario Venuti e
i Fleurs du mal. Ho sempre avuto il pallino di autogestire e di muovermi
anche come battitore libero. L’anno scorso, dopo aver lasciato Universal per
un’esperienza di produzione e management, ho ricevuto una proposta alla
quale non potevo che dire sì: Universal mi ha proposto di costruire un polo
indipendente nei movimenti ma dipendente a tutti gli effetti dalla major, un
contratto di esclusiva con la libertà di firmare progetti nuovi, acquisire artisti
per conto di Universal, sviluppandone le capacità attraverso un lavoro di Artist
Development a 360 gradi. A questo si aggiunge il mio fiore all’occhiello, cioè la
società editoriale (anche questa legata a doppio filo a Universal Music Italia).
Go Wild nasce proprio con questa intenzione: sviluppare progetti con un
procedimento da laboratorio artigianale. Partiamo dalle canzoni e dall’artista
e cerchiamo insieme di arrivare alla pubblicazione e seguire tutto il percorso,
dall’artista al prodotto.
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Quest’anno a Sanremo, a parte Ultrasuoni, eravamo presenti con due
artisti: Nesli tra i big e il grande Enrico Nigiotti tra i giovani. Credo
fermamente nelle capacità artistiche e nella voglia di ascoltare cose nuove, ho
un occhio di riguardo per le giovani realtà, anche se tra una settimana inizio
la produzione di un album molto importante di Edoardo Bennato, con la
partecipazione di alcuni cantautori storici come lui.
Ho lavorato con Modà, Emma, Nesli, Francesco Renga, Cristiano De
Andrè, molti altri del pop mainstream, più una miriade di band e progetti
legati al mio dark side, cioè il rock oscuro e indie europeo. Modà ed Emma
sono molto simili artisticamente: Kekko è un grande autore di canzoni e uno
straordinario frontman, Emma è una grandissima interprete con un energia
come poche.
Entrambi sono supportati da una grandissima popolarità e hanno la grande
possibilità di esprimersi al 100%. Sono contento di aver collaborato con loro
per due album di enorme successo come Viva i romantici e Schiena 1 e 2.
Nesli è per me una cosa diversa, una scommessa, e ho un coinvolgimento
artistico che va oltre il lavoro. Lui è un autore superbo, non ho mai incontrato
qualcuno che avesse questa capacità innata di scrivere testi lasciandoti sempre
a bocca aperta. Il lavoro su Nesli è più complicato ma ci sta dando grandi
soddisfazioni. Sono contento dei risultati ottenuti, nonostante le difficoltà di
un nuovo artista senza reti di protezione. A Sanremo era davvero un outsider
e ritengo che sia uno degli artisti a tutto tondo con più possibilità in Italia. Mi
aspetto da lui grandi cose, questo è solo l’inizio.
In Italia la gente ha ancora voglia di musica, di artisti, di concerti.
Però io inizierei con il pubblicare meno prodotti. C’è troppa gente riesce
ad entrare sul mercato. Il mercato è libero, per carità, ma con la musica
bisogna selezionare dall’interno per evitare che 25 titoli a settimana creino un
intasamento totale sia per il mercato fonografico che per la comunicazione.
Trovo che i talent siano molto democratici, mi piacciono proprio perché
conosco la trafila. Amici, ad esempio, per me in questo momento è la vera casa
discografica per nuovi talenti italiani.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 15 giugno 2015
Veronica Diquattro (Spotify):
“Da quando siamo arrivati
in Italia, il mercato si è ripreso.
Lo streaming è già il presente”
“La nostra missione era rispondere al cambiamento in atto. Sembrava che la
gente non ascoltasse più la musica: non era vero. Semplicemente il consumo si era
spostato su forme che non producevano più valore”. Così la responsabile italiana
del servizio di streaming più diffuso al mondo: “Stiamo dimostrando che il nostro
modello di business funziona”
Se il mercato discografico negli ultimi anni ha limitato i danni, e anzi sta
addirittura provando a rialzare la testa, il merito è quasi esclusivamente
dello streaming. In un’epoca in cui pagare per ascoltare musica è quasi
una bestemmia, milioni di persone in tutto il mondo si sono riversati sulle
piattaforme di streaming, prima fra tutte Spotify.
Tra abbonamenti e account free, sono ormai 75milioni gli utenti del colosso
nato da una start up svedese nel 2008, e ben 3 miliardi di euro sono stati
versati in questi anni nelle casse di case discografiche e artisti. Veronica
Diquattro, trentunenne, responsabile di Spotify Italia, ci racconta le
prospettive di una realtà in continua crescita, che se da un lato fa arrabbiare
qualche star della musica, dall’altro aiuta il mercato a non morire.
Negli ultimi anni Spotify ha contribuito a cambiare le modalità di
fruizione della musica. Come è nata questa avventura?
La missione era rispondere al cambiamento in atto. Sembrava che la gente
non ascoltasse più la musica: non era vero. Semplicemente il consumo si era
spostato su forme che non producevano più valore. Erano gli anni di Napster,
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della pirateria. Non si era in grado di monetizzare abbastanza.
Spotify è entrata in questo momento di cambiamento con un modello che
rispondesse alla modalità di consumo della musica con un prodotto legale,
di qualità, facile da utilizzare, e che producesse anche valore per l’industria
musicale. Stiamo dimostrando che il modello di business funziona.
Nel corso degli anni, però, qualche grande nome della musica se l’è
un po’ presa con voi. Come spiega questa diffidenza?
Per alcuni nomi con determinati atteggiamenti, ce ne sono stati altrettanti che
invece si sono spostati verso lo streaming.
Ci sono punti che devono essere chiariti con gli artisti. Operiamo con logiche
diverse da quelle tradizionali e bisogna fornire loro tutti gli elementi perché
ci sia consapevolezza di come funziona lo streaming e come viene diviso
il valore creato. Spotify ha lanciato una piattaforma dove gli artisti hanno
accesso ai dettagli di streaming per vedere il valore economico creato e come
questo viene spartito. Noi paghiamo il 70% di tutte le entrate che abbiamo (sia
pubblicità che abbonamenti premium) ai detentori dei diritti musicali e sono
le etichette ad avere il contratto diretto con gli artisti. Ad oggi abbiamo pagato
più di 3 miliardi.
Qual è la realtà italiana? Che prospettiva vedete sul mercato
nazionale?
Siamo presenti in Italia da due anni e mezzo. La risposta è stata
incredibilmente positiva sia a livello di utenti che di engagement. Certo, siamo
ancora all’inizio e il primo anno è servito a creare la consapevolezza dello
streaming. Oggi si sa cos’è Spotify e c’è più attenzione ai dettagli.
Il mercato italiano è tornato a crescere negli ultimi due anni, esattamente da
quando siamo arrivati noi, trainato proprio dallo streaming. Nel 2014 per la
prima volta lo streaming ha superato il download in quanto a ricavi. Sono
risultati incredibili.
Com’è il rapporto con l’industria musicale italiana?
I vari attori del settore generalmente ci supportano con un atteggiamento
molto positivo. C’è la consapevolezza di poter fare grandi cose insieme.
Siamo un marchio globale, ma cerchiamo di mantenere l’equilibrio con le
specificità del paese in cui operiamo. Vogliamo sfruttare le potenzialità del
mercato locale.
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Nel 2014 è cresciuto il digitale. Quello che continua a calare, anche
se meno dell’anno precedente, è il mercato fisico. Il disco, almeno
come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, è destinato a sparire?
Non penso che scomparirà. È vero che il mercato è cambiato e lo streaming
è il presente. Ma non vuol dire che non continueranno a esistere altre forme
di consumo diverse, in parallelo allo streaming. Il disco fisico rappresenterà
l’espressione massima di un fan nei confronti dell’artista a cui è legato.
La musica non sarà più condizionata dalla forma fisica, dal numero di tracce
sul CD. Le forme di supporto continueranno ad esistere, ma contenuto e
modalità di fruizione cambieranno.
Con gli artisti italiani ci sono mai stati problemi o diffidenze?
In generale c’è sempre stato un atteggiamento positivo e di supporto. Sin
dall’inizio abbiamo avuto artisti che sono stati un po’ gli ambassador informali
di Spotify. Molti artisti lo usano nella vita di tutti i giorni, come Jovanotti
che è sempre stato un nostro supporter. Ma forse c’è ancora la necessità di
informare gli artisti e questo continuiamo a farlo quotidianamente.
Spotify può essere una vetrina per artisti emergenti. Ma come si fa
a non sparire nella mole immensa di brani del vostro database?
Il vantaggio per gli artisti più piccoli è che comunque sei presente come tutti
gli altri. Sei raggiungibile potenzialmente da 60 milioni di fan, senza avere
necessariamente bisogno di investimenti da parte dell’etichetta di turno.
In realtà il processo di scoperta e di fruizione favorisce la varietà di musica.
Basti pensare che l’80% del catalogo è stato riprodotto almeno una volta e
circa 2 miliardi di volte al mese un utente scopre un artista che non aveva mai
ascoltato, e lo fa attraverso le playlist create da Spotify.
L’artista stesso, per quanto emergente, può sfruttare gli strumenti che Spotify
mette a disposizione: creare il profilo verificato, creare playlist per mettersi a
contatto con i fan, analizzare i dati a cui ha accesso per capire il profilo degli
utenti.
Spotify è un amplificatore.
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Qualche mese fa Jay Z ha lanciato Tidal, che doveva essere lo
Spotify dei superdivi americani. Per adesso è stato un flop. Come te
lo spieghi?
In realtà aspetterei, perché lo hanno lanciato da pochi mesi e si deve ancora
vedere qual è la loro strategia. Come Spotify fondamentalmente siamo
focalizzati sull’utente, a prescindere da cosa fanno gli altri player. Noi
continuiamo con la nostra strategia e cerchiamo di migliorare. Comunque
l’ingresso di altri big name aumenta la consapevolezza del settore streaming e
fornisce un’alternativa legale.
Nonostante i risultati ottimi, Spotify è ancora in perdita. Quando
credete di poter chiudere in attivo?
Se volessimo, potremmo già essere in attivo. Ma la nostra strategia è di lungo
periodo e necessariamente dobbiamo investire per aprire a nuovi mercati.
Nell’ultimo anno siamo passati da 20 a 58 mercati, e questo richiede un certo
investimento.
Siamo presenti sul mercato da 7 anni e sappiamo che dobbiamo continuare a
investire anche nel prodotto stesso e non solo nello sviluppo. Per esempio con
un progetto di intrattenimento a 360 gradi, 24 ore su 24, che vada anche oltre
la musica. E anche questo richiede un investimento.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 15 giugno 2015
Al via la nuova sezione
“La Musica è Lavoro”,
in collaborazione con Medimex
Per la prima volta in Italia, ilfattoquotidiano.it offre un luogo di riflessione e
dibattito per raccontare il vasto e variegato mondo del lavoro musicale. Ospiteremo
le riflessioni e i contributi di artisti e addetti ai lavori, i rappresentanti del mondo
dell’innovazione, della discografia, della musica live, delle istituzioni, le esperienze
di chi vive di musica.
A partire da oggi il nostro magazine si arricchisce della sezione La musica è
lavoro, nata da un’idea del Medimex, il salone dell’innovazione musicale
organizzato da Puglia Sounds, che quest’anno si terrà dal 29 al 31 ottobre
a Bari. Un’iniziativa che abbiamo deciso non solo di condividere, ma di
rilanciare e sviluppare attraverso questo nuovo spazio. La Musica è Lavoro
vuole essere uno spazio aperto in cui ribadire una volta per tutte che la musica,
oltre allo straordinario valore aggiunto dato dal suo significato culturale,
rappresenta un vero e proprio comparto economico con importanti ricadute
occupazionali.
Per la prima volta in Italia, ilfattoquotidiano.it e Medimex offrono un
luogo di riflessione e dibattito per raccontare il vasto e variegato mondo del
lavoro musicale. Ospiteremo le riflessioni e i contributi di artisti e addetti ai
lavori, le voci più autorevoli, i protagonisti del mondo mainstream e quelli
della scena indipendente, le voci fuori dal coro, i rappresentanti del mondo
dell’innovazione, della discografia, della musica live, delle istituzioni, le
esperienze di chi vive di musica. Insomma, un’analisi ad ampio raggio di un
settore che non è solo intrattenimento ma vero e proprio comparto economico
che crea valore.
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Van bene l’arte e l’intrattenimento, dunque, ma stiamo comunque parlando di
un settore che economicamente ha il suo peso.
Secondo i dati Fimi relativi al 2014, il mercato discografico è cresciuto del
4% rispetto all’anno precedente, per un fatturato di 122 milioni di Euro al sell
in. I dati positivi del 2013 e del 2014 hanno decretato la fine di una crisi nera
che si è protratta per undici anni consecutivi. È anche merito del segmento
digitale, ormai vitale per lo stato di salute dell’intero settore, che nel 2014 ha
rappresentato il 38% del mercato (era il 32% nel 2013). I servizi di streaming
online, protagonisti indiscussi della nuova fruizione musicale, sono cresciuti
addirittura più dell’80%. Per la precisione, +84% per i servizi sostenuti da
pubblicità, +82% per quelli in abbonamento. In un panorama giocoforza
sempre più orientato sul digitale, il mercato del supporto fisico continua
comunque a rappresentare oltre il 60% del mercato, con un rallentamento del
calo strutturale del settore che fa ben sperare. Paradossalmente, poi, in pieno
boom digitale, il vinile (3% de mercato) sta vivendo una inaspettata giovinezza
con una crescita dell’84%. Ma il mercato discografico è solo una parte della più
ampia industria musicale: una voce importante da non sottovalutare è quella
relativa agli spettacoli dal vivo, ai passaggi radiofonici e televisivi, oltre alle
“semplici” visualizzazioni dei videoclip musicali su YouTube e gli altri portali
sul Web.
Ecco, dunque, che l’artista che registra un disco, si esibisce in tv o dal
vivo è davvero solo il frontman di una band sterminata, fatta di quelle
che banalmente si chiamano “maestranze”, un termine abusato che
in realtà comprende centinaia di professionisti del settore. In mercati
discograficamente più strutturati e ricchi (Stati Uniti in testa), si tratta di
figure professionali non solo apprezzate, ma anche conosciute al grande
pubblico e a volte vere e proprie star, con conti in banca degni degli attori
hollywoodiani. In Italia un Pharrell Williams non esiste, ma il settore è
una miniera di esperienze sconosciute, professionalità da raccontare e casi di
studio che rappresentano al meglio la vitalità dell’industria musicale italiana.
Un settore economico che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con una crisi
feroce, ma che adesso può permettersi di rialzare la testa e tornare a innovare
e sperimentare.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Domenico Naso | 15 giugno 2015
Malika Ayane: “Con i primi
soldi ho comprato una giacca.
Prendo ancora i dischi
in negozio”
L’abbiamo incontrata a margine della presentazione di Lava, il corto animato
della Disney Pixar che ha doppiato con Giovanni Caccamo. Sì, perché ormai
Malika Ayane ha un successo trasversale e consolidato, tanto da ricevere la
chiamata di mamma Disney. Prima dell’esplosione di un talento riconosciuto
da tutti, però, la cantante ha dovuto fare tanta gavetta. E la decisione di vivere
di musica è arrivata grazie a un brano scritto per Valerio Scanu…
Quando hai capito che avresti potuto vivere di musica?
Era l’estate dopo il primo Sanremo. Al Festival ero andata grazie ai soldi
prestati da mio nonno. Lì ho preso la decisione di non lavorare più in altro
modo.
Dopo qualche mese sono andata in Posta a ritirare la prima SIAE, perché
avevo scritto un pezzo per Valerio Scanu che in quel periodo spopolava, e ho
firmato il contratto con la LiveNation per il primo tour. Parliamo del primo
stipendio di una emergente ma a me sembrava già di essere Madonna.
Il Festival da solo non bastava?
No, affatto. Il Festival ti porta popolarità, che è fondamentale perché le agenzie
ti facciano delle proposte. Io ho sempre avuto idee mastodontiche ma non
riuscivo nemmeno a mettere insieme una band di cinque persone con quello
che mi proponevano.
Avere Feeling better più in alto in classifica di Madonna e andare a Sanremo
con il “caso” Come foglie, è servito perché arrivasse Live Nation con un’offerta
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giusta per una esordiente ma infinitamente più alta rispetto a quelle che mi
avevano fatto le agenzie indipendenti.
Cosa hai fatto con i primi soldi?
Ho comprato una giacca da Paul Smith! Chiaramente in svendita, ma era la
consapevolezza di poter spendere 300 euro per una giacca. Ora mi viene da
ridere, perché basta portare le bambine a cena e al cinema e li hai già spesi.
Però in quel momento ho pensato: “Ho potere d’acquisto”.
Quando produci un nuovo disco sei a contatto con tantissime figure
professionali. Quel è la figura centrale di questo processo?
La figura centrale, e non lo dico per darmi meriti, sono io. Se non ho la salute
mentale per capire cosa mi serve, gli altri possono essere anche i migliori
collaboratori possibili ma non funziona.
Devi essere centrato, devi sapere cosa vuoi, anche quando stai facendo
una cosa più rischiosa e apparentemente sbagliata, come quando ho fatto
Ricreazione, un disco senza singoli o radio particolarmente influenti, suonato
come in cameretta ma con la voglia di fare esattamente quella cosa lì. In quel
caso la forza era avere una band molto solida, che potesse stare chiusa per due
settimane e suonare insieme, tutto il giorno, per arrivare a quello. La figura
fondamentale è quella che ti serve in quel preciso momento.
E nell’ultimo disco?
Per quanto riguarda Naif, le figure fondamentali sono state due: Pacifico,
perché dà sicurezza alla parte timorosa della casa discografica, perché stiamo
investendo un sacco, e rassicura anche me; l’altra figura è Axel Reinemer, che
dei due produttori era quello che stava più in contatto con i discografici italiani
e li rassicurava sul fatto che non avremmo fatto cose orrendamente strane, ma
contemporaneamente difendeva la voglia di fare una cosa diversa.
Che rapporto hai con la musica in streaming?
Non ho nessun problema con lo streaming, anzi. Ho visto la campagna di
Apple per il lancio del nuovo servizio ed è bellissima. Ho l’abbonamento a
Spotify su tutti i dispositivi, oltre alla scatoletta per ascoltare la musica nelle
mie casse, ma vado comunque a comprare i dischi.
Chi nasce in questo momento musicalmente forse sa meglio di me come
sfruttare questo tipo di mezzo. Forse io sono legata a un modo anche desueto
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di fare la musica. Ormai potrei anche evitare di fare i booklet, invece ci tengo
tantissimo.
Secondo te il disco fisico, come lo abbiamo conosciuto fino a oggi,
sparirà? È destinato a diventare un oggetto per collezionisti come è
successo con il vinile?
Molte etichette fanno i dischi in vinile e insieme forniscono un codice per il
download gratuito. Questa potrebbe essere una soluzione. Probabilmente
ci troveremo ad avere il vinile e il CD come oggetti da collezione e il digitale
come mezzo di fruizione. Siamo in un momento storico di egemonia del
singolo, che può decretare il successo o il fallimento di un disco intero, ma
contemporaneamente torniamo a utilizzare dei supporti (vedi il vinile) che
ci portano a dover ascoltare tutto il disco. Ogni tanto ci si accanisce talmente
tanto sullo stato di salute del mercato che si finisce col perdere di vista
l’obiettivo che è fare dischi e farli più belli possibile.
Sei uno dei rari casi, negli ultimi anni, di successo discografico
senza passare dai talent…
Questo è curioso. Io in realtà sono arrivata prima dell’esplosione vera e propria
dei talent. Si può e si deve emergere anche senza. Il talent non ha niente di
male. Non capisco questo bisogno, anzi questa ossessione, di distruggere
sempre e comunque quello che non ci appartiene.
Cos’è per te il successo?
Quando ho fatto il primo disco ero convinta che il successo fosse la possibilità
di fare il secondo e magari comprarmi un’altra giacca di Paul Smith. Mi
sembrava fantastico poter essere una che va a fare la spesa e sul documento c’è
scritto musicista, perché è quello che sa fare. Siamo ossessionati dalla celebrità
assoluta, un concetto un po’ anni Ottanta, e allora è ovvio che non ci siano
alternative al talent.
Compri dischi in negozio?
Sempre. A Milano ci sono due negozi di dischi che frequento spesso: uno è
Serendipity, fortissimo soprattutto sull’elettronica e sul panorama indie; l’altro
è Dischi Volanti, con Ferruccio che è il numero uno su musica intimista e
cantautorale.
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Qualcosa di recente che ti piace particolarmente?
Ci sono artisti a cui mi sono affezionata negli anni, come i Panda Bear, che
l’altra sera ho ascoltato dal vivo ed ero così felice! Sulla scena italiana confesso
di essere molto capra. Vorrei studiare un po’ di più. Però anche la scena indie
sta producendo successi impensabili: basta pensare a Lo Stato Sociale, che
in pochissimo tempo sono diventati un fenomeno da numeri notevoli. Tutta
questa febbre da palazzetto ci fa male. È che ormai se non fai il palazzetto hai
sbagliato lavoro, e invece mi piace che ci siano tante dimensioni diversificate e
i numeri possono arrivare lo stesso.
Hai già idee sul prossimo disco?
Mi sono messa a studiare l’hip hop tradizionale. Vorrei passare dall’ispirazione
al tentativo di vedere come in cose già edite ci sia la risposta alla ricerca
musicale.
Ti aspettavi il successo enorme del tuo ultimo singolo “Senza fare
sul serio”?
Sono molto sorpresa positivamente. È stato l’ultimo brano che abbiamo
scritto, quindi eravamo anche sfiniti. È venuto fuori questo giochetto sul
tempo e quando ho visto che, nonostante fossimo sfiniti, avevamo trovato un
incastro linguistico che si adattasse sul ritmo, ho intuito che qualcosa sarebbe
capitato. Con questo disco è cambiato qualcosa e spero di essere in grado di
sostenerlo.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 16 giugno 2015
Giovanni Gulino:
“Con Musicraiser diamo
alla gente un motivo per
acquistare un disco. E ora
puntiamo all’estero”
Il frontman dei Marta sui Tubi ha lanciato, nel 2012, il primo sito italiano di
crowdfunding musicale. E ora, dopo centinaia di progetti finanziati, l’obiettivo è
sfondare anche nel mondo anglosassone
Per molti appassionati di musica, Giovanni Gulino è solo il frontman dei
Marta sui Tubi. Che già non sarebbe poco. Ma Gulino è anche il papà di
Musicraiser, la piattaforma tutta italiana di crowdfunding musicale nata
nel 2012 e che oggi conta una community di 60mila appassionati. Un’idea
imprenditoriale che ha alla base una concezione nuova e al passo con i tempi
della produzione discografica. Su Musicraiser si finanzia la realizzazione e la
produzione di un disco, ma da qualche tempo si può anche comprare il disco
prima che venga realizzato, o il biglietto di un concerto abbinato a un meet &
greet o al merchandising esclusivo. I risultati sono clamorosi, tanto che Gulino
ha da poco lanciato Musicraiser anche a livello internazionale. Un’esperienza
dai numeri importanti, ma con un occhio sempre rivolto alla qualità: “Ogni
giorno rifiutiamo molti progetti. – dice Gulino – C’è una selezione all’ingresso
perché vogliamo creare una community di appassionati di musica”. E, per il
momento, ci stanno riuscendo.
Come è nata l’idea di Musicraiser?
Se guardi i siti italiani di musica, la visione è molto limitata. Mi sono accorto
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che in giro per il mondo il crowdfunding stava andando molto bene e non
c’erano ancora dei siti focalizzati solo sulla musica. Sono appassionato di web
e nuove economie, oltre che di musica, e ho pensato che avremmo potuto
realizzare qualcosa di bello in Italia.
Inizi difficili o siete partiti in quarta?
Ci abbiamo creduto da sempre, abbiamo preparato il lancio con molta cura e
siamo andati online già con 35 progetti, quasi tutti finanziati.
In un periodo di crisi del mercato discografico, pensi che il
crowdfunding sia lo strumenti adatto per chi non riesce a produrre
un disco?
In realtà oggi produrre un disco non costa nemmeno così tanto: basta avere
un minimo di conoscenze tecniche. Il problema è che non basta registrare un
disco: c’è la promozione, la masterizzazione, il videoclip.
Se tu fai un disco e poi non hai i soldi per fare la promozione, è come se tu
non lo avessi fatto. Noi proviamo a dare agli artisti gli strumenti per farsi
conoscere, oltre alle risorse finanziarie per produrlo. Ci sono artisti con cento
like su Facebook che vendono 3mila copie: è come se una band vendesse
10mila copie digitali su iTunes. Noi puntiamo sulla disintermediazione; se sei
un artista, puoi fare un disco anche senza avere una casa discografica e puoi
farti conoscere attraverso uno strumento come Musicraiser.
Hai mai detto no a un progetto perché non ti convinceva dal punto
di vista qualitativo?
Lo facciamo praticamente ogni giorno. Non diciamo sì a tutte le proposte.
Facciamo una selezione all’ingresso perché vogliamo che sulla piattaforma ci
siano solo progetti seri, portati avanti da gente appassionata e che non siano
speculativi.
Siamo molto attenti a questo aspetto. Ogni volta che finisce una campagna
di crowdfunding vogliamo sapere dove vanno a finire i soldi, vogliamo essere
sicuri che dischi e ricompense vengano consegnati.
Adesso su Musicraiser avete implementato altri strumenti come il
wishow, il ticket preorder e l’album preoder. Stanno funzionando?
Abbiamo fatto ottimi numeri soprattutto con il preorder. Abbiamo venduto i
biglietti per artisti come Red Canzian o, sul fronte internazionale, St. Vincent,
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e per rassegne come il Festival MiAmi. La differenza che c’è tra il nostro
ticketing e quello tradizionale è che noi non vendiamo solo i biglietti ma li
abbiniamo ad altri servizi esclusivi: il meet and greet, il soundcheck, la t-shirt.
Cerchiamo di fare in modo che il nostro sia uno store esclusivo di alta qualità
per chi non si accontenta dei canali tradizionali.
Questa esperienza sta cambiando il tuo modo di fare musica, visto
che giochi su due fronti?
In realtà no, perché tengo separato l’aspetto artistico dalle logiche di
marketing. Prima di fare il musicista ho fatto il manager per dieci anni in una
grande azienda del terziario e quindi ho un background di marketing che mi
ha permesso di dedicarmi al progetto di Musicraiser. Ma è un altro aspetto di
me che nulla ha a che vedere con la parte artistica.
Qual è stato il progetto finanziato che ti è piaciuto di più?
Ce ne sono tantissimi, faccio fatica a fare soltanto un nome. Ci sono campagne
andate molto bene perché sono state delle sorprese, con nomi sconosciuti che
hanno raggiunto budget molto alti, e poi campagne che hanno offerto qualcosa
di straordinario, di bello, di divertente. Penso a Daniele Sepe, che ha appena
concluso la sua campagna e tra le altre cose ha offerto persino un giro in
barca…La gente non ha bisogno di un altro negozio di dischi online ma di un
motivo per acquistarli.
Avete lanciato Musicraiser anche a livello internazionale. Con che
prospettiva?
Non voglio sembrare superbo, ma la nostra piattaforma dal punto di vista
tecnico non ha nulla da invidiare alle piattaforme internazionali. Abbiamo
un team di sviluppatori che ha fatto un lavoro veramente straordinario e dal
punto di vista tecnico siamo pressoché impeccabili. Ma chiaramente non
basta: bisogna lavorare sul marketing, sull’immagine, sul posizionamento.
Abbiamo già finanziato una settantina di progetti stranieri che arrivano
perlopiù dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, quindi è un buon inizio. Puntiamo
anche sull’estero anche perché di piattaforme come Musicraiser non ce ne
sono poi così tante. Ci sono tanti siti di crowdfunding generico, che magari
mettono il progetto musicale accanto a un progetto di design, ma noi vogliamo
costruire una community di appassionati di musica. È per questo che non
accettiamo progetti di altro genere.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Giuseppe Pagano | 17 giugno 2015
Omid Jazi: “Ricomincio
da Londra, dove si può vivere
di musica”
Il musicista di origine iraniana vive in Inghilterra, e da lì sta costruendo un nuovo
percorso musicale e lavorativo che ha già dato i suoi primi frutti. A due anni dal
suo esordio solista Onde Alfa, ha scritto e registrato Tooting Bec, LP che il 1° luglio
sarà rilasciato dalla Nexus Edizioni
Lo chiamavano “il quarto dei Verdena”, e chi è stato al tour di Wow ne
ricorda bene il tocco estroso, da musicista che non si limita ad eseguire una
partitura. Il polistrumentista Omid Jazi già da un anno vive a Londra, e da lì
sta costruendo un nuovo percorso musicale e lavorativo che ha già dato i suoi
primi frutti. A due anni dal suo esordio solista Onde Alfa, in Inghilterra ha
scritto e registrato Tooting Bec, LP che il 1° luglio sarà rilasciato dalla Nexus
Edizioni. Alle spalle di Omid c’è una storia di fughe e di lotta al regime. “Mio
padre uscì dall’Iran ottenendo lo status di rifugiato politico attraverso l’ONU
– racconta a FQ Magazine – Aveva deciso di studiare a Perugia all’Università
per Stranieri; quando poi mia madre lo raggiunse e nacqui io, in Italia ci
rimasero definitivamente”. Dopo aver creato uno studio di registrazione a
Modena e aver militato in diverse band, per Jazi arriva l’espatrio a Londra:
“Volevo cambiare aria soprattutto” – spiega il musicista senza giri di parole.
Nella capitale inglese si mantiene con la musica: “Qui ho conosciuto il
talentuoso Shuta Shinoda, ovvero il sound engineer di “Tooting Bec”.
Siamo entrati in sintonia e mi ha gentilmente introdotto nell’ambiente. Per
mantenermi inizialmente ho continuato ad avere doppi o tripli lavori, ma
ho deciso di lavorare su ciò che mi fa stare bene. Qui puoi sopravvivere nel
settore musicale con soddisfazioni e profitti solo se hai le competenze, la
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musica in Inghilterra è qualcosa di serio per tutti”. Poi lancia la stoccata:
“Ma anche in Italia ci sono possibilità secondo me. Basta saper leccare il
culo”. Il polistrumentista non lesina critiche all’ambiente musicale nostrano.
Innanzitutto nella pratica, svincolandosi dalle label e trovando sostegno in una
casa editrice. “È una scelta insolita e ne vado fiero. Stiamo unendo due mondi,
quello della cultura che si legge e quello della cultura che si ascolta. Fu il libro
432 Hz La Rivoluzione Musicale che mi attirò verso NEXUS Edizioni”.
Aggiunge poi Omid: “Le etichette discografiche italiane sono spesso in mano
a cartelli di cui non mi interessa far parte. Inoltre penso che alcune etichette
in Italia siano come la Chiesa Cattolica, nascono con un intento e poi fanno
l’opposto”.
Suona insolita anche la scelta dell’italiano per un album che prende il nome di
una stazione della metro londinese: “Paradossalmente penso che parlare una
lingua diversa dalla tua possa agevolare lo sviluppo di una poesia personale in
lingua madre, che è quello che cercavo. Metaforicamente ho rotto il Samsara
mettendo ordine a qualcosa di sospeso. Un cerchio è stato chiuso e ora posso
aprirmi a nuovi scenari di cui però forse è prematuro parlare”. L’artista
definisce il nuovo disco come “un dono che ho voluto fare senza aspettarmi
nulla in cambio”. Come nel precedente LP Jazi suona di tutto e ha curato
in prima persona tutte le fasi di registrazione, ma si è circondato anche di
preziose collaborazioni come le batterie di Nevruz Joku (già suo compagno
nel power duo Water in face) e Matteo Rosestolato, e il basso di Jacopo
“LA.po” Tittarelli Rubbioli.
Oltre a una cura certosina per la produzione, “Tooting Bec” rivela un
maggior protagonismo dei testi rispetto ad “Onde Alfa”. Spunti di tensione
mistica dialogano con un cantautorato fantascientifico, che in Lettore di
ologrammi e Multiverso trovano forma più compiuta. All’ascolto risultano
immediate le influenze elettroniche e testuali del Battiato di “Gommalacca”
e della psichedelia electro-pop dei Bluvertigo. Ma non solo: “Alcune
influenze stilistiche derivano dalle mie letture – sottolinea Omid – Ho adottato
l’esempio di Nietzsche che nella “Nascita della Tragedia” descriveva come il
coro greco rappresentasse il ponte empatico tra l’eroe tragico e il pubblico”.
Questo disco non si lascia solo ascoltare, ma cerca corpi da attraversare, menti
da incuriosire. E forse per Omid Jazi questo sarà un motivo per tornare a
suonare in Italia.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Domenico Naso | 18 giugno 2015
Nesli: “Ho scelto il pop
per far felice me stesso.
Mi sentivo estraneo al rap
anche quando ci stavo dentro”
Francesco Tarducci, in arte Nesli, è uno dei casi più interessanti del
panorama musicale italiano degli ultimi anni: partito come rapper, ha
abbandonato quel mondo proprio in pieno boom commerciale del genere,
virando con una certa coraggiosa incoscienza verso il pop. Con Buona
fortuna amore, cantata sul palco dell’Ariston all’ultimo Sanremo, e
con l’album Andrà tutto bene, prodotto da Brando (reduce dai trionfi
di Schiena con Emma Marrone), la metamorfosi sembra definitivamente
completata. Nesli non ha rimpianti (“Mi sentivo fuori dall’ambiente rap anche
quando ci stavo dentro”) e ora si gode anche i successi come autore di pezzi per
altri colleghi (Tiziano Ferro ha cantanto la sua “La Fine”, mentre per Emma
Marrone ha firmato “Dimentico tutto”).
Ormai il tuo passaggio dal rap al pop si è concluso, anche con un
certo successo. Come è successo? Quando lo hai deciso?
È stata una cosa che non è avvenuta dall’oggi al domani, ma un cambiamento
sviluppatosi in tanto tempo. Quella che agli occhi di terzi può essere sembrata
una scelta drastico, per me non lo è stato, né nella tempistica né nei contenuti
musicali. Gli ultimi due/tre album erano già indicativi di altro, per chi era più
attento. Poi sono riuscito a mettere in pratica questa svolta con l’ultimo album,
anche grazie alla produzione di Brando.
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Molti parlano del mondo del rap come un mondo un po’ snob: c’è
qualcuno che ti ha detto “non lo fare”?
In realtà no, ma è vero che è un mondo che snobba tutto, perché nasce con
quell’accezione lì. C’era il rischio di perdere per strada qualcuno che mi
ascoltava quando facevo rap, ma lo avevo messo in conto. Devo dire che la
maggior parte di chi mi seguiva ha compreso il cambiamento.
Era il rischio da correre per andare sempre più vicino a quello che avevo voglia
di fare. Ho deciso di non accontentare gli altri, ma prima di tutto me stesso.
Visto che ora ne sei fuori, che ne pensi di questa esplosione del rap
in Italia? Insomma, com’è il rap nel tuo paese?
È diventato molto più di qualità rispetto a quando ho iniziato io. Il fatto che sia
diventato più popolare e commerciale è legato proprio a quello, alla qualità che
ha acquisito. Ora ha la possibilità di parlare a un paio di generazioni diverse.
A dir la verità, però, io ero fuori da quell’ambiente anche quando ci
stavo dentro: non facevo mie quelle regole di genere, non ho fatto grosse
collaborazioni, non amavo la mondanità di quell’ambiente. In realtà il rap è un
genere ciclico: ogni tot anni deve diventare famoso e poi cadere di nuovo nel
buio per recuperare l’identità originaria. È un genere che ha i paraocchi, una
visione limitata.
Oltre a cantare i tuoi pezzi, hai scritto anche per altri. “Dimentico
tutto” per Emma ha avuto un grande successo. E tutto è cominciato
quando Tiziano Ferro ha cantato la tua “La Fine”. Che differenza c’è
tra scrivere per sé e per gli altri?
La fortuna che ho avuto è che è nato tutto per caso, proprio grazie a La Fine. È
Ferro che mi ha dato la consapevolezza di poterlo fare, consacrandomi come
autore. Mi piace l’idea di continuare a scrivere per altri, è stimolante, e a me
piace scrivere quindi non lo faccio con difficoltà.
Come è nato il rapporto con Brando?
È nato nel 2011: ci siamo conosciuti nei corridoi di Universal e Rtl, siamo
andati d’accordo subito e avevamo voglia di collaborare. Ma lui lavorava
per un’altra azienda, io per Carosello, quindi non siamo mai riusciti a far
coincidere le cose. Abbiamo incubato questa volontà per molto tempo,
diventando amici, fino a quando è arrivata l’opportunità di concretizzare l’idea
nata tanto tempo fa. Al di là della collaborazione artistica, quella con Brando è
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l’amicizia più fortunata che io abbia mai avuto.
Vederti sul palco dell’ultimo Sanremo è stata una sorpresa per
molti. Come hai vissuto quell’esperienza? Ti è piaciuta?
Tantissimo. La rifarei sempre. È stata un’esperienza che volevo fare da tanti
anni e l’ho vissuta con entusiasmo. Chi fa questo mestiere dovrebbe ambire a
Sanremo: ti forma artisticamente e umanamente.
Sui social network hai una fanbase molto solida e appassionata.
L’hai creata volutamente?
Sì, assolutamente. L’ho creata in maniera certosina nel corso degli anni.
Era nata come un esperimento sociale, ma oggi la pagina facebook Famiglia
Neslini ha 1200 membri e mi dà l’opportunità di conoscere i miei fan. Si è
creata una rete sociale di persone vere con legami veri.
Il prossimo passo qual è? A cosa stai lavorando?
Ho quasi finito il libro, che dovrebbe uscire a settembre. E uscirà il repack del
mio album con un sacco di sorprese all’interno. A luglio avrò un po’ di eventi
live che mi vedranno in giro per l’Italia. Due tra tutti: il 16 luglio al Postepay
Summer Festival di Assago e il 17 a Porta di Roma.
Permettimi una digressione. Durante l’ultimo Festival di Sanremo
i social network si sono scatenati a interpretare un verso della tua
canzone, che diceva testualmente “dammi l’amore in faccia”. È
quello che sembra?
In realtà “Buona fortuna amore” è un brano molto sessuale. La gente pensa
“ma non dirà quello”, e invece sì, dice proprio quello. Poi è romanzato, inserito
in un contesto poetico, ma la prima ispirazione di base è quella sanguigna e
istintiva, che ovviamente non puoi mettere in una canzone in maniera volgare.
Ma è esattamente come l’avevano pensata in tanti.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 19 giugno 2015
Max Casacci: “Cultura
popolare e avanguardia devono
mescolarsi. Bisognerebbe far
giocare i ragazzi con la musica”
Il chitarrista dei Subsonica parla di Specchio, l’ultimo singolo della band torinese,
del tour appena cominciato e del rapporto strettissimo costruito con i fan negli
ultimi diciotto anni: “Ai nostri concerti già vediamo padri e figli insieme”.
Max Casacci non è solo il fondatore e il chitarrista dei Subsonica. Per gli
appassionati di musica è anche uno dei produttori più stimati del panorama
discografico italiano, un artista dalle mille sfaccettature che nella sua carriera
ha spaziato dalla Biennale di Venezia al Festival di Sanremo, senza
preoccuparsi delle presunte contraddizioni: “Credo molto nella necessità di
mescolare la cultura popolare con l’avanguardia, perché altrimenti non è vera
cultura popolare, non è specchio dei tempi. Anche una semplice canzone può
ambire a diventare un’opera d’arte”.
Specchio, l’ultimo singolo dei Subsonica, parla di un tema molto
importante e delicato: l’anoressia e i disturbi alimentari in
generale. Come mai avete deciso di affrontare questo argomento?
Stavo inquadrando il personaggio di questa canzone, che è anche un po’
allegra, ubriacona, sghemba, tutto sommato solare. Stava prendendo forma
una di quelle figure classiche degli anni Zero: chi vive un’adolescenza
innaturale, si mette di fronte allo specchio e si rende conto di certe
incongruenze e di certe lacune esistenziali. Era iniziata un po’ così. Poi,
digitando le parole chiave di questo pezzo su un motore di ricerca, con Samuel
ci siamo trovati di fronte a un blog sull’anoressia, che si chiama “Amiche di
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Bia”, con testimonianze molto toccanti e ci siamo resi conto che il nostro
personaggio parlava anche di quello. L’argomento è delicato, complesso e
abbastanza scivoloso, al punto che io ho pensato di fare retromarcia. Tuttavia,
in quel periodo una delle persone a noi più care (che peraltro ha curato la
copertina del disco) aveva un problema di quel tipo molto grave in famiglia.
E per casualità altre persone che conoscevamo si erano trovate di fronte a
vicende simili. Ci siamo resi conto che una delle cose più drammatiche relative
a questo fenomeno è la sensazione di impotenza totale. È un disagio foderato
da un tabù impenetrabile. Ci siamo fatti forza, abbiamo chiesto la consulenza
di esperti che operano nel campo e abbiamo deciso di affrontarlo. Poi abbiamo
chiesto a Luca Pastore, che già aveva firmato il video di Disco Labirinto per
persone sorde, di realizzare il video. Non volevamo essere troppo didascalici.
Il nostro ruolo non è quello di insegnare qualcosa a qualcuno. Il compito degli
artisti è gettare un sasso nello stagno. E noi abbiamo fatto questo.
Da qualche giorno è partito il vostro tour. La dimensione live
ha sempre avuto un’importanza molto forte nell’esperienza dei
Subsonica. Quanto conta stare a stretto contatto con il vostro
pubblico? Conta più di un’ospitata in tv?
Non disdegniamo il rapporto con i grossi media, anche perché sappiamo in
che mondo e in che epoca viviamo. Tuttavia, a distanza di 18 anni, ci rendiamo
di quanto sia stato importante creare un rapporto solido, quasi ombelicale,
con il nostro pubblico, attraverso i concerti o il controllo del prezzo dei
biglietti. E poi abbiamo un rapporto quotidiano e costante. Già nel 1999,
avevamo un blog quando ancora non si usava la parola blog. Ormai esiste un
codice, un patto narrativo che include anche una sorta di humour condiviso.
E poi, avendo il live come stella polare, in questo momento di cambiamenti
radicali nella musica, siamo avvantaggi. Siamo una delle poche realtà che
dal vivo continuano ad avere una bella resa, anche in termini di numeri.
Stiamo cominciando ad accogliere ai nostri concerti ragazzi nati quando
cominciavamo a suonare.
Sta per scattare la seconda generazione di fan dei Subsonica?
Sì, abbiamo già visto padri e figli insieme ai nostri concerti.
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Oltre che musicista e fondatore dei Subsonica, sei anche uno dei
produttori più stimati del panorama musicale italiano. Come è
cambiato il modo di produrre un disco dai tuoi esordi a oggi?
Sono cambiate innanzitutto le tecnologie. Io taglio ancora i nastri con le
forbici, ma scelgo se usare analogico e digitale in base all’artista con cui lavoro.
In realtà quello che non cambia, al di là della tecnologia usata, è l’impatto
emotivo di quello che stai facendo. Bisogna astrarsi e tenere in considerazione
chi ascolterà quella canzone.
Nel corso della tua carriera hai spaziato in campi anche poco
convenzionali o diversi tra loro: dalla Biennale di Venezia a
Sanremo, passando per Planetario. Hai fatto tutto: è una continua
ricerca musicale?
La mia è voglia di ascoltare musica. Non mi nego lo stupore, anche di
fronte alla musica che in questo momento viene fatta da chi ha la metà
dei miei anni. E visto che continuo ad ascoltare musica, automaticamente
viene voglia di tentare nuovi esperimenti. Io credo molto nella necessità di
mescolare la cultura popolare con l’avanguardia, perché altrimenti non è vera
cultura popolare, non è specchio dei tempi. Credo molto nel fatto che una
semplice canzone possa ambire a diventare un’opera d’arte. Non ci si deve
assolutamente frenare e soprattutto è sbagliato pensare che l’artista debba
essere condizionato dal pubblico. Spesso è proprio il pubblico a chiedere di
essere condotto per mano.
A proposito di assecondare i gusti del pubblico: siamo nell’epoca
dei talent show. Che pensi di questo fenomeno?
Innanzitutto mi sono stufato delle letture ideologiche applicate alla musica
perché in passato hanno creato disastri. Ma tendenzialmente a me non piace
la televisione e credo ci sia un equivoco di base nella lettura del fenomeno: non
sono un fenomeno musicale ma televisivo, con la narrazione tipica della tv.
Il fatto che i ragazzi vendono ai propri coetanei non è una novità. Oggi sono
quelli dei talent, prima era chi faceva hip hop. Un quindicenne è più attratto
dalla voce di uno che ha la sua stessa età, che tratta temi che per gli altri sono
già sentiti mille volte, ma per lui sono nuovi. Detto questo, la musica è una
cosa, la televisione è un’altra. Non bisognerebbe confondere i due aspetti.
Fino agli anni Novanta sui media c’era più spazio per tante altre cose, oggi
quello spazio è molto ristretto. Nell’arco di quattro mesi, 60-70 canzoni
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monopolizzano lo spazio su tv e radio, e questo è un problema perché la
produzione musicale in Italia è più ampia, perché ci sono nuove etichette
indipendenti, perché c’è chi ci crede e non si è arreso. Bisognerebbe
diversificare gli spazi.
La musica è praticamente scomparsa dalla scuola italiana. Quale
approccio bisognerebbe usare sotto questo punto di vista?
Bisognerebbe far giocare i ragazzi con la musica. La musica è un fluidificante
pazzesco di tutto il resto. A livello artistico, scientifico, imprenditoriale: è una
risorsa da tenere in considerazione. Con la musica si possono sperimentare
aspetti ludici. Qualche giorno fa sul nostro Facebook abbiamo postato la
versione in latino di un nostro singolo di qualche anno fa, “La Glaciazione”.
Come mai esiste una versione in latino di una nostra canzone? Perché un
professore di latino di Verona l’ha fatta tradurre ai suoi studenti. Poi ha creato
una base e l’ha cantata in latino, con gli studenti che fanno il ritornello in coro
tipo The Wall. Ecco, la musica permette questo genere di cose.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 20 giugno 2015
Folliero (Sziget Festival):
“In Italia non si riesce
nemmeno ad allestire
un campeggio. Serve meno
burocrazia”
Dal 2004, con la sua L’Alternativa, il manager pugliese è il volto italiano del grande
evento musicale dell’estate a Budapest. Quest’anno la line up è di alto livello
(Florence + The Machine, Robbie Williams, Marina and the Diamonds, solo per
citarne alcuni) e per l’Italia ci saranno, tra gli altri, Après la classe e Lo Stato
sociale.
Con la sua L’Alternativa, Ettore Folliero è il volto italiano del Sziget Festival
di Budapest, uno degli happening musicali più famosi d’Europa. Anche
quest’anno, l’impegno di Folliero per promuovere l’evento nel nostro Paese
è stato ciclopico: dall’organizzazione dei viaggi dei tanti ragazzi che vogliono
vivere quell’esperienza allo scouting di band emergenti, fino alla selezione dei
gruppi italiani che avranno l’onore di suonare sul palco della suggestiva isola
in mezzo al Danubio. Quest’anno l’appuntamento è dal 10 al 17 agosto, con
una line up che fa tremare le vene ai polsi: Robbie Williams, Florence and the
Machine, Major Lazer, Kasabian, Avicii, Marina and the Diamonds, Gogol
Bordello, Asaf Avidan e tantissimi altri grandi nomi della musica mondiale.
Cosa fa per il Festival ungherese?
Lavoro ufficialmente per il Sziget dal 2004. Questo evento ha oltre venti
promoter nelle varie nazioni, e noi siamo stati forse i primi promoter
europei. Curiamo tutta la promozione, la vendita, l’organizzazione di viaggi,
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partecipiamo ad alcuni progetti interni e collaboriamo anche per il booking
delle band italiane chiamate a suonare a Budapest.
La line up di quest’anno è incredibile. Come si spiega il fatto che da
noi non ci siano Festival di questa entità?
In Italia molto probabilmente ci sono problemi dal punto di vista burocratico.
Da noi spesso non riescono nemmeno ad allestire un campeggio perché manca
tutta una serie di autorizzazioni, nemmeno così difficili da dare, ma nessuno
vuole assumersi la responsabilità.
E poi, forse il pubblico italiano non si è mai abituato a vivere una situazione
da Festival. È un’esperienza che richiede una partecipazione continua, dalla
mattina alla sera. Gli italiani sono un po’ freddi.
In giro per il mondo i Festival di successo hanno anche un ritorno
economico enorme per le città che li ospitano. Non c’è spazio per
creare una cultura dei festival in Italia?
Non metto limiti alla Provvidenza, anche perché ultimamente il concetto di
Festival sta diventando trendy. Le esperienze dei ragazzi all’estero stanno
creando uno zoccolo duro che sarà il pubblico dei Festival italiani dei prossimi
anni.
In Italia molti eventi dal passato glorioso, ora stanno vivendo
un periodo di forte crisi, basti pensare al caso Arezzo Wave. Un
consiglio per farli funzionare?
Non conosco l’esperienza Arezzo Wave, ma come altri festival ha avuto un
peccato originale: vivere sui fondi pubblici. Se si vuole intendere la musica
come un comparto imprenditoriale non ci si può basare solo sulle concessioni
del comune o della regione di turno.
Si deve sviluppare un’economia intorno a un evento, in modo da non essere
vincolati sistematicamente agli umori della nuova giunta o del nuovo
assessore.
Lei ha anche il compito di selezionare i gruppi italiani che
partecipano al Sziget. Quest’anno ci saranno Après la classe, Fast
animals and slow kids, Lo Stato Sociale, Canzoniere grecanico
salentino, Roy Paci e Mario Rossi, un percussionista di strada
che usa solo strumenti improvvisati. Quale criterio ha usato nella
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scelta?
Lavoriamo molto con la musica emergente e grazie al contest che organizziamo
dal 2004 abbiamo potuto conoscere bene la scena musicale italiana. Quando si
inizia a conoscere la filiera dello sviluppo della musica, è abbastanza semplice
individuare le band che secondo noi sono adatte per il Sziget. Cerchiamo
di portare sempre la qualità, ma ovviamente dobbiamo coniugarla con la
notorietà.
Si può ancora fare scouting nell’epoca dei talent show?
Sono due canali totalmente diversi. Non vendiamo a nessuno il sogno di
diventare ricchi e famosi. Promettiamo solo di essere ascoltati, valutati da
persone che lavorano nel settore e nel caso garantiamo una possibilità. Non è
facile emergere in questo mondo.
Quanto conta il live in un momento di crisi del settore discografico?
È fondamentale. E questo ha creato i presupposti per lo sviluppo del settore
dei Festival. Fino a poco tempo fa, quando ancora si vendevano i dischi, gli
artisti tendevano a suonare meno, anche perché fare un tour non è semplice.
Prima una tournée si faceva ogni tre anni, ora praticamente ogni anno. Questo
girovagare degli artisti per il mondo ha dato la possibilità ai Festival di avere
molta più scelta per presentare line up di livello. Ma c’è anche il rovescio della
medaglia: alcuni artisti li ritrovi ogni anno a suonare allo stesso Festival, e
diventa un po’ noioso.
Qualche settimana fa Jovanotti, parlando all’Università di Firenze,
ha detto che non vede niente di male se i giovani fanno i volontari
gratis per i grandi Festival musicali, perché si tratta di esperienze
formative. Le sue dichiarazioni hanno provocato molte polemiche:
lei che ne pensa?
Quando si pronunciano delle frasi del genere, soprattutto se sei così famoso, è
facile essere fraintesi. Dal mio punto di vista non vedo nulla di scandaloso nel
fatto che delle persone facciano i volontari in un progetto articolato come un
festival. I giovani, se vogliono intraprendere questa carriera, non hanno molte
scelte: o rischiano sulla loro pelle, perdendoci tanti soldi come molti che hanno
iniziato questa attività, oppure fanno una specie di stage e acquisiscono le
nozioni di base. È uno scambio alla pari tra datori di lavoro e giovani volontari.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 21 giugno 2015
Jarrett Koral, diciassette anni
e un’etichetta discografica
che produce vinili
L’adolescente americano ha dovuto vendere la sua personale collezione di vinili per
far fronte alle spese della prima uscita in assoluto della sua etichetta: un disco della
band di Detroit After Dark Amusement Park nel 2012.
Jarrett Koral ha 17 anni, sta per finire il liceo e vive a Detroit. Fino a
qui, nulla di strano: occhialuto, faccia da nerd, un viso che dimostra meno
anni, uno dei tanti ragazzotti americani. Quello che lo rende diverso dai suoi
coetanei, però, è che Jarrett è proprietario di una etichetta discografica
su vinile. Settore di nicchia, quello del buon vecchio dischio, ma che nei
primi mesi del 2015 è comunque cresciuto del 53% negli Stati Uniti rispetto
all’anno precedente (in Italia lo scorso anno la crescita è stata addirittura oltre
l’80%). E il giovane Jarrett, che dei vinili è innanzitutto fan, ha pensato bene
di fondare la sua Jett Plastic Recordings che quest’anno ha pubblicato
la cover band dei Velvet Underground guidata dall’ex enfant prodige di
Hollywood Macaulay Culkin. E non si tratta di un capriccio passeggero di
un adolescente annoiato, visto che almeno altri sei dischi vedranno la luce nei
prossimi mesi.
Il Guardian, che racconta la curiosa vicenda imprenditoriale, fa sapere che
l’adolescente americano ha dovuto vendere la sua personale collezione di vinili
per far fronte alle spese della prima uscita in assoluto della sua etichetta: un
disco della band di Detroit After Dark Amusement Park nel 2012. Ancora
studia, Jarrett, e non ha la minima intenzione di interrompere. Anche perché
far soldi non sembra la sua prima preoccupazione. Di tempo libero ne ha
sempre meno, anche perché gli affari non vanno male, nonostante il vinile
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continui a essere un settore di nicchia: +260% dal 2009, per una quota del
mercato discografico americano che si aggira attorno al 4%. “Non mi stupisce
questo ritorno in auge del vinile” – afferma Koral, che è cresciuto nel negozio
di dischi di famiglia – “Ho passato anni circondato da amanti dei dischi e che
per tutta la vita non hanno fatto altro che collezionarli”
Ma il giovanissimo Jarrett non ha fretta: “Voglio prendere le cose con calma e
vedere come andrà questa avventura”. E non c’è nessun tipo di snobismo nei
confronti del digitale, perché in fondo Koral è figlio dei suoi tempi e sa che è
necessario fare i conti con il trend generale: “Sono aperto a ogni tipo di
sviluppo e non escludo di allargarmi anche al settore digitale”.
In Italia forse una realtà del genere non potrebbe esistere. Questione di
mentalità, innanzitutto, ma anche di impostazioni e caratteristiche del mercato
discografico nostrano. Anche se, in fondo, non sembra un’impresa impossibile:
pubblicare un disco costa all’etichetta di Jarrett circa 2mila dollari,
mentre finanziare un intero album ha costi più elevati. Cifre che non
sembrano comunque impossibili, neppure per un giovanissimo imprenditore
come lui. Qualcuno vuole raccogliere la sfida e diventare il Jarrett Koral
italiano?
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 22 giugno 2015
Marabotti (Vivo Concerti):
“Il live è solo il coronamento
di un percorso. Quest’estate
non perdetevi Nutini e i Muse”
La discografia si sta riorganizzando dopo la grande confusione degli anni Duemila,
con la pirateria e Internet. Il live ne ha beneficiato, perché gli artisti ormai non
hanno nella vendita dei dischi l’entrata economica maggiore e organizzano un tour
quasi ogni anno
Responsabile comunicazione di Vivo Concerti, Marcello Marabotti
ha il polso della situazione della musica live in Italia come pochi altri. Tra
interazioni sempre più indispensabili con il Web e necessità crescente degli
artisti di organizzare sempre più tournée, ecco che anche i dischi prodotti
ormai sono pensati principalmente per la dimensione live. E poi, immancabili,
i consigli per l’estate: da Paolo Nutini ai Muse, passando per Linkin Park,
Damien Rice e Florence.
Che momento è per la musica live in Italia?
È un momento esplosivo. Il live ormai è l’unico vero grande momento
di interazione e condivisione tra artisti e fan, che grazie alla tecnologia
si è sviluppato ancora di più. È un momento di svago e divertimento, il
coronamento del sogno della condivisione di un interesse musicale.
Cosa ha fatto e cosa può fare il web per aiutare il settore?
È una caratteristica e un’opportunità fondamentale. Io sono stato fortunato
perché Vivo Concerti ha da sempre una visione orientata al web. Abbiamo
sempre tenuto un occhio vigile sulle nuove tecnologie e stiamo cercando di
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lavorare sempre più a stretto contatto con partner come Facebook, Twitter,
Spotify. Lo scorso anno abbiamo realizzato un progetto molto interessante con
Subsonica e Google, con interazione tra band e fan sia prima che durante il
concerto.
Non abbiamo nessuna paura che il Web possa danneggiare il live. Anzi, stiamo
lavorando per mostrare alle persone quanto più possibile del concerto che
promuoviamo.
Il live conta ancora di più in un periodo così difficile per le vendite
di dischi?
In questo momento la discografia ti porta a un ascolto molto personale
e solitario, con il concerto succede esattamente il contrario. È una festa.
Ovviamente, ora la discografia si sta riorganizzando dopo la grande confusione
degli anni Duemila, con la pirateria e Internet. Il live ne ha beneficiato,
perché gli artisti ormai non hanno nella vendita dei dischi l’entrata economica
maggiore, quindi organizzano tour quasi ogni anno, passando anche tre o
quattro volte dallo stesso paese. E poi gli artisti ultimamente producono dischi
già molto orientati verso il live. Basti pensare all’ultimo lavoro dei Muse, che
dal vivo ha una potenza impattante.
Quanta comunicazione c’è nel successo di un evento live?
Noi non finiamo mai di fare comunicazione. Per noi il concerto non è l’unico
interesse. Lavoriamo sull’artista, sul suo posizionamento, e lo facciamo in tutti
i canali: Facebook, Twitter, Instagram, Google.
È un lavoro che ci ha permesso di ottenere risultati enormi in termini di like
e followers. In Italia, tra i promoter, siamo gli unici che fanno questo tipo di
lavoro. Abbiamo un progetto editoriale che parte dall’annuncio delle date
e continua nei giorni che ci separano da un concerto ma anche nei giorni
successivi. Lavoriamo molto anche sull’uscita discografica. L’evento è solo il
coronamento di un percorso.
Quali sono i concerti da non perdere quest’estate?
Sicuramente Paolo Nutini, che domani inizia il minitour italiano da Trieste e
che poi rivedremo a luglio. Abbiamo lavorato molto su Nutini: lo scorso anno
abbiamo fatto una diretta radio da Roma che ha cambiato il suo percorso in
Italia. A novembre poi ha fatto sold out al Forum con un concerto fantastico.
Poi Muse e Linkin Park, a Roma, ma sarà stupendo anche Damien Rice a
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Villafranca, in una cornice molto adatta a quest’artista. Poi il ritorno degli
Interpol e adesso abbiamo annunciato anche Florence, con una risposta
incredibile da parte del pubblico.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 23 giugno 2015
Tricarico: “I talent show?
Una barbarie. La musica
non ha più poesia”
A quindici anni dal tormentone “Io sono Francesco”, il cantautore milanese torna
con “La Mela”, che racconta con un realismo quasi rassegnato la situazione attuale
del nostro Paese, tra uomini della Provvidenza e incapaci
È sempre il personaggio stralunato e sognatore degli esordi e del tormentone
“Io sono Francesco” (numero 1 in classifica nel 2000), ma Francesco Tricarico
oggi è anche un artista che ha superato da qualche anno i quaranta, ha
accumulato una certa esperienza, ha collaborato con alcuni grandi nomi
della canzone italiana e oggi può permettersi anche di uscire con un singolo
molto politico (“La Mela”), che racconta con un realismo quasi rassegnato la
situazione attuale del nostro Paese. Continua a essere un irresistibile alieno,
in un mondo della canzone che sente sempre più distante dal suo modo
di intendere la musica, e non ha problemi a scagliarsi contro il fenomeno
pigliatutto del talent show: “Una barbarie!”.
Il tuo ultimo brano “La Mela” è sull’Italia e sulla situazione
politica, sociale ed economica attuale. Sbaglio o è un pezzo un po’
pessimista?
Pessimista no, è realista. Il momento è difficile ma soprattutto ci sono persone
incapaci, in tutte le posizioni: nella musica, nella cultura, nella politica. Non
sono proprio in grado.
Tra i politici non salvi nessuno?
Non mi chiedere dei nomi, non mi schiero. Non fa parte della mia etica
prendere una posizione. E poi io scrivo anche per i maiali: a me interessa che
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quello che faccio arrivi a tutti. Mi interessa la verità. Schierandomi già farei un
torto a qualcuno. Sicuramente c’è qualcuno che apprezzo più degli altri, pochi.
Qualcuno si salva, magari un giorno ti faccio i nomi…
Hai sempre vissuto la musica in maniera timida, almeno
all’apparenza. Ci spieghi cosa significa per te fare musica?
Innanzitutto è il mio mestiere. È come se io fossi un artigiano andato a
bottega: l’ho imparata da piccolo, facendo il Conservatorio. È quello che so
fare, che poi fortunatamente ha a che fare con la mia persona. Ho tanti conflitti
dentro di me e la musica mi ha permesso di metterli a fuoco.
In un periodo di crisi del mercato, ha ancora senso fare dischi?
Sì, alla musica del mercato non è mai fregato più di tanto. Una volta c’erano i
mecenati, al tempo di Mozart o Bach. C’era la Chiesa, c’erano i committenti, i
nobili, i regnanti. Poi il mercato era diventato il mecenate, ossia se tu vendevi
andavi avanti.
Ma c’è sempre bisogno di musica. Il problema è che sono cambiate delle cose
attorno, fattori economici che sono estremamente ridicoli in questi momenti.
Cosa pensi del fenomeno dei talent show?
I talent sono la barbarie. La musica non deve essere quello, è una cosa
ridicola. Siccome la musica in crisi, poi, non è solo un fenomeno tra i tanti
ma IL fenomeno, perché gli investimenti sono tutti lì. Se ci fossero anche
altre cose, non me ne fregherebbe nulla, ma ahimè me ne frega perché vedo
tutti inginocchiati davanti a certi personaggi, davanti al potere dei talent.
Probabilmente lo farei anche io se mi chiedessero di condurne uno, perché in
fondo siamo tutti poveri e si fa tutto. Ma a volte ci si svende, e la musica non si
meritava di abbassarsi a questo.
Com’è la musica al tempo dei talent?
Non c’è più mistero, non c’è più poesia. Esci da un talent, sei Mengoni,
sei Emma, sappiamo tutto di te, sei controllabile, ricattabile. Sei normale,
mentre una volta la normalità non c’era, c’era l’eccezione. Oggi l’eccezione
preoccupa, siamo alla normalizzazione di qualcosa di anormale, di aggressivo,
di rivoluzionario. Prima si aggregavano le persone, adesso che ti aggreghi?
Andando a sentire Emma non ti aggreghi, ma potrei fare anche tutti i nomi di
chi è uscito da un talent. E parlo da ascoltatore, non da interprete, perché a
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parte qualche canzone io non sono mai passato in radio, sicuramente per colpa
mia e mancanza mia. Ma la musica è stata svilita da tutte le persone che ci
lavorano attorno: dall’editoria musicale fatta coi piedi, dai talent che trattano
la musica con le categorie di giusto e sbagliato, categorie che non ci dovrebbero
essere. C’è l’arte, la verità. La canzonetta nel suo piccolo ambisce a quello.
Chiunque ambisce a quello, anche il mio panettiere che è un fuoriclasse, un
artista. È vero, sincero, è da solo. Ha a che fare con se stesso, con la propria
coscienza. E la coscienza è stata rimossa. C’è qualcuno che ti dice cosa è bello
e cosa è brutto e chi ascolta musica è vittima inconsapevole di questo. È un
momento terribile.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 24 giugno 2015
Beatrice Rana: “Per affermarmi
sono andata all’estero. In Italia
serve una vera educazione
musicale nelle scuole”
Classe 1993, la pianista pugliese ha conquistato le platee di mezzo mondo con il suo
talento cristallino: “L’Italia mi ha dato moltissimo, ma Francia e Stati Uniti sono
stati decisivi per cominciare il mio percorso”.
Beatrice Rana è nata nel 1993 eppure, a soli 21 anni, è una delle punte di
diamante del panorama concertistico italiano. A 18 anni aveva già vinto il
primo premio al Festival di Montreal, e da allora è stata una marcia trionfale
in giro per il mondo, suonando il suo pianoforte nei teatri più importanti
del pianeta, diretta anche da mostri sacri come Zubin Mehta. Ma Beatrice è
partita da Lecce e, nonostante il successo planetario, non ha reciso il legame
profondissimo con la sua terra d’origine. Nonostante tutto, nonostante lo stato
non certo florido della scena concertistica in Italia.
Sei giovanissima ma hai già un curriculum prestigioso. Come ti sei
avvicinata al pianoforte?
Sono nata in una famiglia di musicisti: entrambi i miei genitori sono pianisti
quindi per me era quasi una normale conseguenza. In casa li vedevo sempre
dare lezioni ai bambini e pensavo che suonare il piano fosse una cosa che si
faceva in ogni casa, tutti i giorni. La prima volta che mi sono accorta che non
era esattamente così fu uno choc.
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Tra le tante esperienze in giro per il mondo, qual è stata la più
significativa?
Sicuramente il mese scorso alla Scala. Il Teatro alla Scala è importantissimo,
ma per un’italiana è un vero e proprio tempio.
Qual è la differenza tra la scena concertistica in Italia e all’estero?
L’Italia è un paese che amo tantissimo e che mi ha dato tante soddisfazioni.
Ma c’è da dire che io sono dovuta andare fuori per iniziare il mio percorso. Qui
non avrei avuto la possibilità di affermarmi. È bello tornare in Italia, ma paesi
come Francia e Stati Uniti mi hanno dato tantissimo all’inizio. Francamente
tornare nella mia Puglia ogni volta è una coltellata al cuore: anche l’orchestra
della mia città, Lecce, sta chiudendo. Qui si può ascoltare musica classica solo
su YouTube…
Cosa si deve fare per avvicinare i più giovani alla musica classica?
Educarli, innanzitutto. Nelle scuole dovrebbe esserci una vera educazione
musicale. Quando un bambino conosce la musica, poi può decidere da solo se
gli piace o meno. In questo momento invece siamo vittime di un pregiudizio,
secondo cui la musica classica è noiosa e per vecchi. Io sono la prima
dimostrazione che questo non è vero, proprio perché ho conosciuto la musica
in maniera non fuorviata.
Ascolti musica pop?
Sì, io ascolto di tutto. Ovviamente è un ascolto distratto, perché sono
concentrata sulla classica. Ma categorizzare la musica è sbagliato. Per esempio,
Beyoncé ha fatto una canzone che io definisco “classica”. E allora perché
Beyoncé è una cantante da milioni di ascoltatori e Rachmaninoff è per pochi
eletti? Questo è il punto.
Che platea è quella che segue i tuoi concerti?
Essendo giovane, ho il vantaggio di attirare un pubblico giovane. Dipende
anche dal posto in cui suono, ma mi fa piacere vedere che i giovani non
mancano. Non punto a un pubblico colto. Gli ascoltatori musicalmente colti
saranno sempre interessati alla musica classica, però vengono a un concerto
pieni di sovrastrutture. Chi non è assiduo frequentatore di concerti, invece, si
avvicina alla classica con più apertura.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Silvia Rossi e Luca Catasta | 25 giugno 2015
Andrea Nardinocchi: “Il mio
Supereroe, tra Ace Ventura
e Prince, con un occhio
a Michael Jackson”
“Non esistono persone speciali. Solo persone uniche, con il potere di fare
l’unica semplice cosa che può rendere indistruttibili: esprimersi, senza paura”.
È Andrea Nardinocchi che parla, classe 1986, bolognese, una vita dedicata
al freestyle basket e un’altra iniziata da un po’ dedicata alla musica.
Lo ricorderete per lo street video d’esordio Un posto per me girato con la
tecnica del reverse-shooting (praticamente tutto al contrario) dove cammina,
ballando lungo le sponde del naviglio milanese. Viene poi selezionato per la
categoria giovani al Festival di Sanremo 2013 con una “Storia impossibile”,
brano all’interno del suo album di debutto, e il 16 giugno è uscito su etichetta
Universal Supereroe, il secondo disco di inediti in cui segue un unico
mantra, quello del non avere paura di esprimersi.
E lo fa davvero in Hu! Eh!, dove gioca con l’immagine e crea un nuovo
personaggio. Si presenta in versione a colori fluo, vestito di pelle, con capelli
cotonati: “In questo percorso di ricerca ho capito che se prima mi vergognavo
a girare una clip adesso immagino che quello che si vede non sono io ma
un personaggio” ha spiegato Andrea. “Qui ho pensato a un incrocio fra Ace
Ventura e Prince”.
Dodici tracce pop che rimandano alle sonorità degli anni ’80, con ritmi
che vanno dal funk all’elettronica, strumenti digitali, beatbox, loopstation
e campionamento vocale. Sono queste le caratteristiche della musica di
Nardinocchi che per questo progetto ha coinvolto anche Elisa che con una
supervisione ampia ha dato ad Andrea anche quella tranquillità che un po’ gli
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è mancata in precedenza. “Supereroe” è stato anticipato dal singolo L’Unica
Semplice e oltre al video “Hu! Eh!” c’è anche Come M.J., un brano che si
ispira a Michael Jackson, uno dei suoi idoli musicali, girato in stop motion
con l’utilizzo di una grafica che richiama il mondo dei fumetti e quindi dei
supereroi.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 26 giugno 2015
Glastonbury, il festival
musicale dei grandi numeri:
135mila paganti per una line-
up d’eccellenza
Da The Who a Kanye West, il top della musica mondiale si dà appuntamento in
Inghilterra di fronte a 175mila persone. L’happening ha coinvolto più di 3 milioni di
persone in trentatré edizioni, con incassi complessivi oltre i 300 milioni di sterline
È cominciato mercoledì (e si concluderà domenica sera) il festival di
Glastonbury, in in Inghilterra, uno degli happening musicali più famosi
del mondo, e senza alcun dubbio il più famoso d’Europa. Probabilmente
ci sarà il solito fango, perché il clima britannico è quello che è, ma la line
up di quest’anno, come sempre, è da far tremare le vene ai polsi. La vasta
area di Pilton, nel Somerset, è già stracolma di gente arrivata da ogni
angolo del mondo per uno dei pochi festival a livello globale che riesce
ancora a conservare un’aura leggendaria. Siamo arrivati alla trentatreesima
edizione di quello che ufficialmente si chiama Glastonbury Festival of
Contemporary Performing Arts, organizzato per la prima volta nel 1970
dal proprietario della fattoria Michael Eavis.
Oggi Glastonbury ospita 175.000 persone, di cui 135.000 paganti, con i
biglietti andati a ruba nel tempo record di 26 minuti lo scorso ottobre. Sono
tantissimi anche i volontari delle tre ONG che Michael Eavis ha scelto di
supportare: Oxfam, WaterAid e Greenpeace. L’happening inglese, che in
totale ha ospitato quasi 3milioni di spettatori e incassato qualcosa come 325
milioni di sterline, si prepara a un weekend mostruosamente ricco di grandi
nomi della musica mondiale: Florence + The Machine, Motorhead, Mary
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J. Blige, Kanye West, Pharrell Williams, Paloma Faith, Burt Bacharach,
George Ezra, Paul Weller, Lionel Richie, Patti Smith, Hozier, fino ad arrivare
alla chiusura leggendaria con The Who.
Una line-up che dalle nostre parti non è facile da mettere insieme nemmeno in
un secolo, e che ancora una volta evidenzia la distanza siderale che esiste tra la
cultura dei festival musicali in giro per il mondo e in Italia. Anche non volendo
considerare l’enorme portata artistica e culturale di un happening del genere,
basterebbe dare un’occhiata al ritorno economico per cominciare a farci un
pensierino.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Domenico Naso | 27 giugno 2015
Raf: “La crisi della musica
è cominciata negli anni
Ottanta. Da allora si è solo
replicato il passato”
Ha attraversato quattro decadi di canzoni, sempre con grande successo popolare,
ma Raf non ha un’opinione lusinghiera dei talent show, espressione massima del
pop dei giorni nostri: “Bob Dylan oggi non ce l’avrebbe fatta”
Quattro anni dopo l’ultimo album, torna sul mercato discografico uno dei più
longevi e apprezzati cantanti italiani: Raf. Il suo “Sono io” è un album pop con
evidenti venature di impegno sociale, tanto che è lui stesso a dire che “fare un
disco di musica leggera non è mai stato un lavoro leggero”. Ha attraversato
quattro decadi di musica, sempre con grande successo popolare, ma Raf non
ha un’opinione lusinghiera sui talent show, espressione massima della musica
pop dei giorni nostri. Piuttosto, se fosse un esordiente oggi, in un momento di
crisi strutturale del settore, si affiderebbe al Web.
“Sono io” che fase della tua carriera rappresenta?
È un album di musica pop così come faccio ormai da tanti anni, ma si spinge al
limite oltre il quale non sarebbe più pop. Per fare questo c’è un insospettabile
lavoro certosino di sperimentazione che non è così leggero. Per me fare un
disco di musica leggera non è mai stato un lavoro leggero.
È un disco che racchiude delle ballade d’amore che sono alla base della
canzone popolare ma ci sono anche brani che toccano problematiche sociali.
Nella musica leggera ci si può anche permettere di guardarsi attorno e dire la
propria. L’ho fatto anche nei dischi passati, senza paura di perdere consensi.
Dico delle cose che per un cantante di musica pop sono scomode, ma che per
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la verità oggi nemmeno i cosiddetti cantautori impegnati dicono più. Oggi
c’è musica pop ovunque, anche in quella che grazie a lavori di marketing può
apparire più impegnata.
Nel disco c’è anche Come una favola, il pezzo che hai presentato
all’ultimo Sanremo. Esperienza sfortunatissima. Ci torneresti il
prossimo anno?
Non lo so, perché le mie presenze a Sanremo sono state segnate da risultati
non certo positivi.
La prima volta portai al Festival Inevitabile follia, che arrivò addirittura
penultima. Se ci fosse stata l’eliminazione anche allora sarei stato eliminato.
Poi però la canzone divenne molto popolare. Così come successe con Cosa
resterà degli anni Ottanta, che a Sanremo si piazzò nella parte bassa della
classifica.
Sul palco dell’Ariston non è mai andata bene. Poi, per fortuna, il gradimento
è sempre stato migliore dei risultati della gara. E in realtà è successo lo stesso
quest’anno con Come una favola, che è stato uno dei pezzi sanremesi più
trasmessi in radio.
Hai attraversato quattro decadi di musica, dagli anni Ottanta a
oggi: cosa è cambiato?
La differenza vera è che la musica, andando di pari passo con quello che
succede nel mondo dal punto di vista sociale ed economico, verso la fine degli
anni Ottanta è entrata in una fase di crisi epocale. Dagli anni Cinquanta a parte
degli Ottanta, la musica ha creato novità sotto qualsiasi aspetto: strumenti
usati, tecnologie, modi di esprimersi. I concerti e gli eventi muovevano masse
giovanili capaci anche di cambiare l’opinione pubblica o le scelte politiche.
Oggi, come le proteste di piazza, anche i grandi concerti servono a ben poco.
Anche le tendenze musicali, quelle vere, sono finite negli anni Ottanta: quello
che è avvenuto dopo è solo la ripetizione di quanto era già accaduto.
E poi oggi la musica è talmente morta che per arrivare alle persone viene
filtrata attraverso lo strumento mostruoso della televisione, con giovani talenti
che devono confrontarsi tra loro in una realtà come l’intrattenimento televisivo
che è cosa ben diversa dalla vera musica…
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Ecco, stavo proprio per chiederti questo: cosa pensi dei talent
show?
Di sicuro non favoriscono la creatività, perché tutto deve passare attraverso
le regole dell’intrattenimento televisivo. I giovani vengono giudicati solo per
la loro voce o per la loro interpretazione, che sono solo due dei tanti aspetti
che fanno un grande artista. Pensiamo a Bob Dylan: nell’epoca dei talent non
avrebbe avuto nessuna chance.
Con la crisi strutturale del mercato discografico, sembra che solo
il web possa salvare il settore. Tu che rapporto hai con le nuove
tecnologie?
Sono estremamente utili per giovani talenti che vogliono cercare un’alternativa
alla partecipazione ai talent. Non è una via semplice ma è l’unica alternativa
percorribile. In questo i social possono dare un contributo notevole. Il fatto
che esistano è molto positivo. È una forma di comunicazione alternativa che in
futuro sarà quella prevalente rispetto alla tv e ai vecchi media.
Se fossi un giovane e dovessi partire oggi con questo mestiere, io mi affiderei ai
social.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di F. Q. | 30 giugno 2015
Comunicare la musica,
una professione (anche)
da studiare
Piccola storia di un Master Universitario che ha creato un percorso per chi vuole
“muovere” le canzoni, lavorando nell’industria dei suoni (di Gianni Sibilla)
di Gianni Sibilla
Direttore del Master in Comunicazione Musicale dell’Università Cattolica e
giornalista musicale
“Che lavoro fai?”
“Lavoro nella musica”
“Ah, allora ti diverti”
“Si, certo. Ma è lavoro”.
Se sognate di diventare professionisti nel campo, preparatevi a queste
reazioni. Se già ci lavorate, avrete avuto almeno una volta una conversazione
del genere. È uno dei grandi miti della musica: si basa solo sulla passione, sul
divertimento, sulla pancia, e non solo sulla testa e sulle competenze. Assieme
ad un altro grande luogo comune: “Il lavoro della musica si impara sul campo”.
Ogni lavoro si impara sul campo, certo. Ma in quel campo bisogna arrivarci, e
preparati. La passione spesso non basta. Come per ogni professione, c’è tanto
da imparare studiando, confrontandosi e facendosi guidare dagli esperti del
settore.
Da anni, alla Cattolica di Milano, abbiamo messo in piedi un luogo dove
la musica è davvero lavoro, dove la passione si incrocia con la professione,
studiando e facendo pratica per imparare i meccanismi e i segreti del settore.
Questo luogo si chiama Master in Comunicazione Musicale, è un corso post-
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laurea che si occupa di insegnare un particolare campo del lavoro musicale: il
mestiere di chi “muove” la musica e la fa arrivare ai media e agli ascoltatori.
Uffici stampa, discografici, promoter, redattori di media musicali,
comunicatori e distributori digitali. A me piace dire che la musica non
ci arriva mai per caso, soprattutto oggi: dietro un album, una canzone, un
concerto, un videoclip, un passaggio in radio, un post, un tweet, un articolo, c’è
sempre qualcuno che ha pensato come farci arrivare quell’artista, ha lavorato
per raccontarcelo, ha progettato come metterlo in contatto con il pubblico
usando il canale migliore.
Al Master in Comunicazione Musicale insegniamo quei mestieri lì, da
15 anni. Raccontiamo la storia della musica, le tecniche della comunicazione,
i meccanismi dell’industria e del digitale, mettiamo alla prova in laboratori,
si impara a scrivere comunicati stampa, a fare progetti di comunicazione,
strategie di marketing per dischi, concerti, artisti e così via.
Quando è nato il Master Musica non esistevano neanche i “Master” (poco dopo
è diventato un titolo con un valore legale: equivale a un anno di università). In
accademia si parlava poco di musica pop e rock. Se ne parla poco tutt’ora, in
realtà: nel sistema accademico italiano c’è storicamente una ritrosia verso la
cultura popolare, si pensa che sia solo intrattenimento, la musica è “leggera”,
che non vale la pena di essere studiata… Invece sappiamo bene che non è
così: il pop, il rock, tutta la musica è cultura. Ma il nostro corso fu il primo in
Italia a permettere di studiare il mondo della musica in maniera organica, e a
pensare ad un percorso professionale per lavorare nel settore, creando delle
competenze che poi servano davvero alle aziende, con cui lavoriamo da anni e
che ci “prestano” i docenti, e che accolgono gli studenti per gli stage.
Serve un Master, per lavorare nella musica? Dipende. Non tutti i master
servono, alcuni sono generici, non garantiscono neanche uno stage o un
percorso chiaro. Ma un Master può essere un valore aggiunto. Noi facciamo
in modo che lo sia: ci occupiamo solo di un settore specifico che conosciamo
bene, diamo competenze, facciamo formazione non soltanto accademica,
garantiamo stage a tutti i nostri studenti, li mettiamo in contatto con i migliori
professionisti del settore. (Se vi interessa la questione, qua ne parlo più
diffusamente)
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Quindici anni dopo: quasi 400 studenti (e altrettanti stage). Molti di questi
ragazzi li incontro ancora molto spesso: il mio altro lavoro, oltre dirigere il
Master, è quello di giornalista musicale. Ex studenti sono diventati amici
e colleghi che fanno gli uffici stampa, i discografici, e così via. Qualcuno ha
cambiato strada, dopo un po’, come succede per ogni percorso professionale.
Ma diversi vengono anche a tenere lezioni al Master, perché ora sono loro che
insegnano a me, e agli studenti. E questa è la miglior prova che abbiamo fatto
qualcosa di buono e di utile.
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FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Domenico Naso | 1 luglio 2015
Giovanni Caccamo: “Sicurezza
in ciò che si fa, autenticità
e voglia di mettersi in gioco.
Ecco cosa serve per sfondare
nella musica”
Lanciato da Franco Battiato e ora prodotto dalla Sugar di Caterina Caselli, la
parabola del giovane cantautore siciliano è un esempio paradigmatico di quanto,
oltre al talento, serva una dose massiccia di caparbietà per farcela in un mondo
sempre più complicato come quello dell’industria musicale
La parabola artistica di Giovanni Caccamo, cantautore venticinquenne e
vincitore dell’ultima edizione del Festival di Sanremo tra i giovani, è un
esempio paradigmatico di quanto, oltre al talento, serva una dose massiccia
di caparbietà per sfondare in un mondo sempre più complicato come quello
dell’industria musicale. Prima di arrivare all’Ariston, il ragazzo lanciato da
Franco Battiato e ora prodotto dalla Sugar di Caterina Caselli, ha tentato la
strada dei talent show, si è inventato il Live at Home, con oltre sessanta date
in giro per le case di tutta Europa, e ora si gode il successo con un approccio
maturo e disincantato, ma senza perdere il gusto di fare musica che lo ha
portato, un giorno d’estate di qualche anno fa, a intercettare Battiato in
spiaggia e a consegnargli il CD che ha dato il via alla sua carriera.
Serve anche un po’ di faccia tosta per sfondare in questo mestiere?
La questione è trovare metodi alternativi per proporsi. Serve sicurezza in ciò
che si fa, studiare tanto e avere il coraggio di farsi avanti.
56
Avevi anche provato la strada del talent. È servito a qualcosa?
Cinque anni fa avevo fatto un tentativo non andato a buon fine ma che è stato
molto utile per farmi capire che dovevo iniziare a scrivere. È sempre più
complicato riuscire a trovare qualcuno che scriva canzoni per te.
Poi ti sei inventato la formula dei live a casa della gente…
L’idea è nata dopo aver aperto i concerti di Battiato. Non avevo pubblico
né soldi per un tour e ho lanciato un contest online e chiunque aveva un
pianoforte in casa poteva candidarsi come palcoscenico del live. Alla fine ho
fatto sessanta date in tutta Europa.
Anche adesso, all’interno del tour teatrale, ci sono quindici date di Live at
Home, di cui cinque per beneficenza. L’intenzione è sempre quella di creare un
dialogo diretto con il mio pubblico.
Il mercato discografico è sempre più in crisi. Tu hai la fortuna (e
il talento) di essere sotto l’ala di Caterina Caselli. Come è nato il
rapporto con lei e qual è la sua dote migliore?
Seguivo la Sugar da quando ero piccolo: era una delle etichette delle quali
subivo più il fascino, anche per il tipo di musica che ho iniziato a fare. Pensavo
potesse essere la famiglia giusta per me. Ho rotto le scatole al mio manager e
sono riuscito ad avere un provino con Caterina. Da lì è nato un grande amore
professionale. La marcia in più di Caterina è che è anche una artista, quindi
capisce in maniera più profonda le esigenze e le dinamiche di questo mestiere.
Sei molto giovane ma hai già una carriera invidiabile. Se un ragazzo
ti chiedesse un consiglio per intraprendere la tua stessa strada,
cosa gli diresti?
La prima cosa è accertarsi di fare questo lavoro principalmente, o almeno
inizialmente, per sé, perché se ne ha l’esigenza. Purtroppo oggi la mancanza
di punti di riferimentoti porta ad attribuire al successo il valore aggiunto della
vita. È sbagliato. La priorità deve essere l’autenticità di ciò che fai. Una volta
raggiunto quell’obiettivo, in qualche modo le occasioni un po’ arrivano, un po’
te le trovi. Non bisogna aver paura di mettersi in gioco, anche con metodi non
convenzionali.
57
FQ Magazine / La Musica è Lavoro
di Salvatore Coccoluto | 2 luglio 2015
Federico Zampaglione:
“La crisi del settore musicale
è alle spalle: oggi se non ci fosse
la Rete sarebbe un problema”
Per il frontman dei Tiromancino la dimensione live resta uno dei momenti più
importanti per chi svolge questo lavoro, sia dal punto di vista artistico che per il
sostentamento della propria attività
Ha firmato diverse canzoni per il nuovo lavoro di Eros Ramazzotti,
Perfetto, uscito a maggio, e quasi contemporaneamente ha spiazzato tutti
producendo L’inferno dei vivi, secondo disco del più trash dei metallari
italiani: Richard Benson. È nella natura di Federico Zampaglione,
cantautore, regista, sceneggiatore e frontman dei Tiromancino, stupire
il pubblico e la critica. Da sempre ama rimettersi in gioco, misurandosi
con nuove sfide. Proprio in questi giorni ne ha lanciata un’altra: da grande
appassionato di boxe, ha deciso di aprire l’agenzia TM Promotion per
promuovere il pugilato italiano nel mondo. E ad agosto porterà in Italia
l’incontro per il titolo mondiale Silver WBC dei pesi leggeri. Nel frattempo è
di nuovo in tour con i Tiromancino per riproporre i brani storici della band
con arrangiamenti inediti, accompagnati dai Visual di Dario Albertini e da
giochi di luci e scenografie. Per Federico, infatti, la dimensione live resta
uno dei momenti più importanti per chi svolge questo lavoro, sia dal punto
di vista artistico che per il sostentamento della propria attività, anche se è
convinto che la crisi del mercato discografico sia superata e la Rete sia ormai
un’indispensabile risorsa per la musica.
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  • 1.
  • 2. Direttore responsabile: Peter Gomez Illustrazione di copertina e progetto grafico: Pierpaolo Balani © 2015 Editoriale il Fatto S.p.A. Tutti i diritti riservati www.ilfattoquotidiano.it
  • 3. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 13 giugno 2015 Lo streaming trascina il mercato digitale: +83% nel 2014 Mentre il disco fisico continua a calare e il digital download è in flessione, Spotify e gli altri operatori del settore tengono in vita l’industria discografica italiana. Il soccorso a un settore in crisi arriva da un servizio che in passato ha provocato le critiche di alcuni nomi noti della canzone Quanto vale il settore digitale nel mercato discografico italiano? Stando ai dati FIMI relativi al 2014, tra digital download e streaming parliamo di un giro d’affari di 46,8 milioni di euro, pari al 38% del mercato discografico totale. Un bel salto in avanti rispetto al 2013, quando il giro d’affari superava di poco i 38 milioni e la quota del mercato totale era ferma al 32%. Il digitale è sempre più protagonista dell’industria musicale italiana, con un incremento del 23% e una prospettiva futura ancora in crescita. E visto che il mercato fisico è calato del 5%, è proprio grazie al digitale che il settore ha potuto guadagnare 4 punti percentuali rispetto al 2013 (122 milioni di euro rispetto ai 117 precedenti). Anche all’interno del settore digitale, però, è bene fare una distinzione: il digital download è sceso da 23 a quasi 20 milioni di euro (-15%), mentre lo streaming è cresciuto da 14,6 a 26,8 milioni (+83%). Una rivoluzione dentro la rivoluzione, con lo streaming che nel 2014 ha rappresentato il 57% del mercato digitale, lasciando al digital download il restante 43% (nel 2013 era addirittura il 62%). L’impennata dello streaming è frutto soprattutto dell’esplosione del fenomeno Spotify, che ha trainato anche gli altri operatori del settore come Deezer, 3
  • 4. YouTube, TIMmusic, Google Play e Vevo. E in questo gioco di scatole cinesi per capire lo stato di salute del mercato discografico del nostro paese, è necessaria un’ulteriore distinzione tra abbonamenti ai servizi di streaming e account free foraggiati dalle inserzioni pubblicitarie. Gli abbonamenti producono 12,47 dei 26,8 milioni totali del settore, mentre le inserzioni pubblicitari pesano per oltre 14 milioni. Numeri in crescita, dunque, che fanno ben sperare per il futuro dell’industria musicale. Ed è paradossale che il soccorso a un settore in crisi arrivi proprio da un servizio in passato molto criticato dagli stessi artisti e che invece, a quanto pare, sta portando sollievo in un momento particolarmente difficile per il mercato fisico. 4
  • 5. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 13 giugno 2015 Matteo Zanobini: “La musica non è solo intrattenimento. Gusto, ricerca e contenuti culturali vanno sostenuti” Nell’attuale mercato, l’unica possibilità di sopravvivenza per l’industria discografica è puntare su progetti di massa che diano risultati veloci, sacrificando quelle proposte che invece hanno bisogno di tempi di assimilazione più lunghi. Ma esiste anche una discografia attenta allo sviluppo di idee che, non potendo contare su vendite consistenti, avrebbe bisogno di un sostegno delle istituzioni. Label manager di Picicca, una delle realtà più solide della discografia indipendente italiana, Matteo Zanobini ha il physique du role del produttore indie: baffi d’ordinanza, hipster da quando gli hipster erano faccenda esclusiva di Williamsburg, è uno degli artefici del successo del fenomeno Brunori (altro socio di Picicca, peraltro). Indipendente sì, ma non troppo: Picicca collabora proficuamente con le major dell’industria discografica, a riprova del fatto che gusto e ricerca musicale non devono per forza corrispondere a una segregazione snob tra qualità e mercato. E l’approccio di Zanobini ai problemi di un settore in crisi è pragmatico, mai velleitario, consapevole delle difficoltà e altrettanto risoluto nel proporre soluzioni. Secondo te perché in Italia non riesce a passare il messaggio della musica come settore economico, che muove capitali e crea occupazione? È un problema culturale, politico, economico? Culturale, economico e politico. La tecnologia ha reso la musica un bene immateriale, fruibile in modo gratuito. Del resto se avessimo la possibilità 5
  • 6. di avere gratis un paio di jeans, un’autovettura o un telefono, nessuno si sognerebbe mai di doverli pagare. In un mercato così ristretto, l’unica possibilità di sopravvivenza per l’industria discografica è puntare su progetti di massa che diano risultati veloci, sacrificando quelle proposte che invece hanno bisogno di tempi di assimilazione più lunghi. In questo scenario, purtroppo, non è più necessaria una competenza musicale da parte degli addetti ai lavori. Questa attitudine rafforza l’idea che la musica sia solo intrattenimento e fa sì che l’industria discografica sia percepita alla stregua di altri ambiti merceologici di seconda e terza necessità. Ma esiste anche una discografia (come quella che noi pensiamo di rappresentare) attenta al gusto, alla ricerca, allo sviluppo di idee e contenuti culturali che, non potendo contare su vendite consistenti – per i motivi di cui sopra – avrebbe bisogno di un sostegno delle istituzioni. E per sostegno non mi riferisco all’erogazione di finanziamenti in ottica assistenzialistica, ma ad esempio ad agevolazioni fiscali più strutturate, soprattutto in fase di start up. E’ ancora possibile costruire un successo discografico duraturo in Italia? Lucio Dalla ha impiegato 10 anni per ottenere un successo di pubblico, straordinario anche in termini economici. Perché una cosa del genere possa accadere oggi, non possiamo sottometterci alla sola mera logica capitalistica. Intendo dire che il mercato per queste proposte è possibile, ma bisogna avere le risorse e il tempo per arrivarci. Tra l’altro l’esistenza di un tale tipo di mercato potrebbe riverberare i propri effetti positivi anche in altri ambiti economici. Il modello Puglia in questo senso è illuminante: la valorizzazione politica della cultura e degli eventi collegati ad essa ha contribuito allo sviluppo di altre attività parallele sul territorio (infrastrutture, turismo, trasporti). Come è cominciata l’avventura di Picicca e come è cresciuta nel corso del tempo? Qual è la divisione dei ruoli tra voi soci? Picicca è nata nel 2010, in occasione della pubblicazione del secondo album di Brunori Sas, come naturale evoluzione della collaborazione tra me, Dario Brunori e Simona Marrazzo. Volevamo occuparci di tutti gli aspetti legati al ciclo vitale di un progetto artistico. Fin da subito è stata chiara la nostra attitudine nel voler coniugare la passione con l’aspetto pragmatico. Volevamo fosse anche un mestiere e non un’attività residuale. Fra noi “soci” i ruoli 6
  • 7. sono ripartiti così: io mi occupo della parte manageriale, Simona della parte amministrativa e Dario è il “consigliori”, esperto in fogli di Excel. Adesso tra collaboratori interni ed esterni siamo una decina. Il vostro rapporto con le major è molto buono e proficuo. Come è nato? Con quali rapporti di forze? Quanto si riesce a incidere sulle scelte dei colossi della discografia? Il rapporto con le strutture esterne con cui collaboriamo (non solo con le major) è sempre stato ottimale, perché caratterizzato da una nostra totale indipendenza artistica. Noi realizziamo le nostre opere in autonomia e poi le sottoponiamo alla loro attenzione. Se c’è interesse e margine, collaboriamo. Ad oggi siamo legati alle major per il comparto distributivo ed editoriale. Intervengono soprattutto laddove non riusciamo ad intervenire con le nostre forze. A una major non interessa intervenire artisticamente su un progetto definito come il nostro. Non c’è insomma nessun tipo di ingerenza da parte di questi partner, ma una proficua collaborazione. Qual è l’importanza dei live? Il live è vitale. Buona parte delle risorse arrivano da questa attività. Come si costruisce il “successo” di un artista senza passare dai talent? Un certo tipo di successo, inteso come generalista, passa quasi solo per quei canali. Esistono “successi” di natura diversa che garantiscono ugualmente una sostenibilità. Per lavorare in questo senso occorre tempo, cura e dedizione, oltre alla conoscenza puntuale del tempo in cui si vive e delle sue regole. I progetti artistici devono avere un messaggio preciso, un contenuto, un racconto. Ma soprattutto bisogna saperli incarnare e comunicare bene. Pensare solo in termini musicali adesso è più che mai riduttivo. Detto questo, il successo mantiene sempre e comunque variabili aleatorie. 7
  • 8. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Brando | 15 giugno 2015 Banda larga per tutti: la rinascita del mercato discografico passa da lì A parte artisti consolidati (come Ferro, Jovanotti, Vasco) che continuano a macinare copie su copie e le intuizioni di programmi come Amici, il resto fa davvero fatica ad uscire o perlomeno ad ottenere i risultati che meriterebbe in una situazione favorevole Da più di 10 anni si sente ripetere come un mantra devastante (non solo nella musica) che è “un momentaccio”. In realtà si tratta solo di una serie di mutazioni “genetiche” del mercato dovute al cambiamento repentino del modo di fruire la musica e i suoi contenuti. Il passaggio da fisico a liquido non è stato indolore e questa è la motivazione vera di una situazione di stallo dove i numeri sono penalizzati sia per le piattaforme digitali che per la tradizionale distribuzione e vendita del prodotto fisico. Il mercato discografico (o discopatico) è in sofferenza da più di un decennio: i numeri sono davvero bassi, basti pensare alle classifiche che ancora per tradizione e poca conoscenza sono commentate attraverso la posizione in classifica ma andrebbero studiati solo con i numeri, cioè con l’effettivo venduto della settimana, volgarmente detto sell out. A parte artisti consolidati (come Ferro, Jovanotti, Vasco) che continuano a macinare copie su copie e le bellissime intuizioni di programmi come Amici (ormai vero punto di riferimento per il pop italiano) che con Dear Jack, Briga e The Kolors (una band fortissima) riesce ad ottenere risultati che ricordano davvero la golden age della discografia, il resto fa davvero fatica ad uscire o perlomeno ad ottenere i risultati che meriterebbe in una situazione favorevole. Sarebbe interessante (per capire di cosa stiamo parlando) esaminare le 8
  • 9. copie vendute, per esempio per scoprire che molto spesso addirittura due copie in più fanno guadagnare due posizioni. Sul digitale i numeri sono molto bassi; cinque album venduti su iTunes fanno scalare nell’immediato venti o più posizioni. A questo aggiungiamo che la gente, non solo i più giovani, è ormai abituata a caricare una playlist da YouTube e ascoltare gratuitamente tutto quello che vuole. Lo streaming, che dovrebbe portare alla terza fase, cioè all’abbonamento come prima forma di guadagno e diffusione della musica, da noi è ancora un’utopia: gli abbonamenti e i numeri di piattaforme come Spotify (servizio eccezionale) sono in Italia intorno ai 50 mila all’anno. Non male, ma siamo ancora molto lontani da una vera rivoluzione streaming. Il passaggio alla banda larga per tutti in realtà dovrebbe significare una rinascita del mercato. Avendo così poche persone in percentuale che usufruiscono della banda larga, siamo costretti ad accettare proposte che vadano bene al grande pubblico della Tv generalista e delle radio con più ascolti. Sono convinto che con l’agognato passaggio alla banda larga per tutti, il mouse supererà la tv e la stampa canonica. È quello che io chiamo MOUSEPOWER! La prima volta che ho lavorato a un polo “autonomo” che potesse sviluppare progetti discografici con la forza di una major e la dedizione di una indie è stata nel 1992 con l’etichetta Cyclope Rec di Francesco Virlinzi. Siglammo un accordo con la allora Polygram (Universal Music adesso): io facevo anche l’artista, i compagni di scuderia erano Carmen Consoli, Mario Venuti e i Fleurs du mal. Ho sempre avuto il pallino di autogestire e di muovermi anche come battitore libero. L’anno scorso, dopo aver lasciato Universal per un’esperienza di produzione e management, ho ricevuto una proposta alla quale non potevo che dire sì: Universal mi ha proposto di costruire un polo indipendente nei movimenti ma dipendente a tutti gli effetti dalla major, un contratto di esclusiva con la libertà di firmare progetti nuovi, acquisire artisti per conto di Universal, sviluppandone le capacità attraverso un lavoro di Artist Development a 360 gradi. A questo si aggiunge il mio fiore all’occhiello, cioè la società editoriale (anche questa legata a doppio filo a Universal Music Italia). Go Wild nasce proprio con questa intenzione: sviluppare progetti con un procedimento da laboratorio artigianale. Partiamo dalle canzoni e dall’artista e cerchiamo insieme di arrivare alla pubblicazione e seguire tutto il percorso, dall’artista al prodotto. 9
  • 10. Quest’anno a Sanremo, a parte Ultrasuoni, eravamo presenti con due artisti: Nesli tra i big e il grande Enrico Nigiotti tra i giovani. Credo fermamente nelle capacità artistiche e nella voglia di ascoltare cose nuove, ho un occhio di riguardo per le giovani realtà, anche se tra una settimana inizio la produzione di un album molto importante di Edoardo Bennato, con la partecipazione di alcuni cantautori storici come lui. Ho lavorato con Modà, Emma, Nesli, Francesco Renga, Cristiano De Andrè, molti altri del pop mainstream, più una miriade di band e progetti legati al mio dark side, cioè il rock oscuro e indie europeo. Modà ed Emma sono molto simili artisticamente: Kekko è un grande autore di canzoni e uno straordinario frontman, Emma è una grandissima interprete con un energia come poche. Entrambi sono supportati da una grandissima popolarità e hanno la grande possibilità di esprimersi al 100%. Sono contento di aver collaborato con loro per due album di enorme successo come Viva i romantici e Schiena 1 e 2. Nesli è per me una cosa diversa, una scommessa, e ho un coinvolgimento artistico che va oltre il lavoro. Lui è un autore superbo, non ho mai incontrato qualcuno che avesse questa capacità innata di scrivere testi lasciandoti sempre a bocca aperta. Il lavoro su Nesli è più complicato ma ci sta dando grandi soddisfazioni. Sono contento dei risultati ottenuti, nonostante le difficoltà di un nuovo artista senza reti di protezione. A Sanremo era davvero un outsider e ritengo che sia uno degli artisti a tutto tondo con più possibilità in Italia. Mi aspetto da lui grandi cose, questo è solo l’inizio. In Italia la gente ha ancora voglia di musica, di artisti, di concerti. Però io inizierei con il pubblicare meno prodotti. C’è troppa gente riesce ad entrare sul mercato. Il mercato è libero, per carità, ma con la musica bisogna selezionare dall’interno per evitare che 25 titoli a settimana creino un intasamento totale sia per il mercato fonografico che per la comunicazione. Trovo che i talent siano molto democratici, mi piacciono proprio perché conosco la trafila. Amici, ad esempio, per me in questo momento è la vera casa discografica per nuovi talenti italiani. 10
  • 11. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 15 giugno 2015 Veronica Diquattro (Spotify): “Da quando siamo arrivati in Italia, il mercato si è ripreso. Lo streaming è già il presente” “La nostra missione era rispondere al cambiamento in atto. Sembrava che la gente non ascoltasse più la musica: non era vero. Semplicemente il consumo si era spostato su forme che non producevano più valore”. Così la responsabile italiana del servizio di streaming più diffuso al mondo: “Stiamo dimostrando che il nostro modello di business funziona” Se il mercato discografico negli ultimi anni ha limitato i danni, e anzi sta addirittura provando a rialzare la testa, il merito è quasi esclusivamente dello streaming. In un’epoca in cui pagare per ascoltare musica è quasi una bestemmia, milioni di persone in tutto il mondo si sono riversati sulle piattaforme di streaming, prima fra tutte Spotify. Tra abbonamenti e account free, sono ormai 75milioni gli utenti del colosso nato da una start up svedese nel 2008, e ben 3 miliardi di euro sono stati versati in questi anni nelle casse di case discografiche e artisti. Veronica Diquattro, trentunenne, responsabile di Spotify Italia, ci racconta le prospettive di una realtà in continua crescita, che se da un lato fa arrabbiare qualche star della musica, dall’altro aiuta il mercato a non morire. Negli ultimi anni Spotify ha contribuito a cambiare le modalità di fruizione della musica. Come è nata questa avventura? La missione era rispondere al cambiamento in atto. Sembrava che la gente non ascoltasse più la musica: non era vero. Semplicemente il consumo si era spostato su forme che non producevano più valore. Erano gli anni di Napster, 11
  • 12. della pirateria. Non si era in grado di monetizzare abbastanza. Spotify è entrata in questo momento di cambiamento con un modello che rispondesse alla modalità di consumo della musica con un prodotto legale, di qualità, facile da utilizzare, e che producesse anche valore per l’industria musicale. Stiamo dimostrando che il modello di business funziona. Nel corso degli anni, però, qualche grande nome della musica se l’è un po’ presa con voi. Come spiega questa diffidenza? Per alcuni nomi con determinati atteggiamenti, ce ne sono stati altrettanti che invece si sono spostati verso lo streaming. Ci sono punti che devono essere chiariti con gli artisti. Operiamo con logiche diverse da quelle tradizionali e bisogna fornire loro tutti gli elementi perché ci sia consapevolezza di come funziona lo streaming e come viene diviso il valore creato. Spotify ha lanciato una piattaforma dove gli artisti hanno accesso ai dettagli di streaming per vedere il valore economico creato e come questo viene spartito. Noi paghiamo il 70% di tutte le entrate che abbiamo (sia pubblicità che abbonamenti premium) ai detentori dei diritti musicali e sono le etichette ad avere il contratto diretto con gli artisti. Ad oggi abbiamo pagato più di 3 miliardi. Qual è la realtà italiana? Che prospettiva vedete sul mercato nazionale? Siamo presenti in Italia da due anni e mezzo. La risposta è stata incredibilmente positiva sia a livello di utenti che di engagement. Certo, siamo ancora all’inizio e il primo anno è servito a creare la consapevolezza dello streaming. Oggi si sa cos’è Spotify e c’è più attenzione ai dettagli. Il mercato italiano è tornato a crescere negli ultimi due anni, esattamente da quando siamo arrivati noi, trainato proprio dallo streaming. Nel 2014 per la prima volta lo streaming ha superato il download in quanto a ricavi. Sono risultati incredibili. Com’è il rapporto con l’industria musicale italiana? I vari attori del settore generalmente ci supportano con un atteggiamento molto positivo. C’è la consapevolezza di poter fare grandi cose insieme. Siamo un marchio globale, ma cerchiamo di mantenere l’equilibrio con le specificità del paese in cui operiamo. Vogliamo sfruttare le potenzialità del mercato locale. 12
  • 13. Nel 2014 è cresciuto il digitale. Quello che continua a calare, anche se meno dell’anno precedente, è il mercato fisico. Il disco, almeno come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, è destinato a sparire? Non penso che scomparirà. È vero che il mercato è cambiato e lo streaming è il presente. Ma non vuol dire che non continueranno a esistere altre forme di consumo diverse, in parallelo allo streaming. Il disco fisico rappresenterà l’espressione massima di un fan nei confronti dell’artista a cui è legato. La musica non sarà più condizionata dalla forma fisica, dal numero di tracce sul CD. Le forme di supporto continueranno ad esistere, ma contenuto e modalità di fruizione cambieranno. Con gli artisti italiani ci sono mai stati problemi o diffidenze? In generale c’è sempre stato un atteggiamento positivo e di supporto. Sin dall’inizio abbiamo avuto artisti che sono stati un po’ gli ambassador informali di Spotify. Molti artisti lo usano nella vita di tutti i giorni, come Jovanotti che è sempre stato un nostro supporter. Ma forse c’è ancora la necessità di informare gli artisti e questo continuiamo a farlo quotidianamente. Spotify può essere una vetrina per artisti emergenti. Ma come si fa a non sparire nella mole immensa di brani del vostro database? Il vantaggio per gli artisti più piccoli è che comunque sei presente come tutti gli altri. Sei raggiungibile potenzialmente da 60 milioni di fan, senza avere necessariamente bisogno di investimenti da parte dell’etichetta di turno. In realtà il processo di scoperta e di fruizione favorisce la varietà di musica. Basti pensare che l’80% del catalogo è stato riprodotto almeno una volta e circa 2 miliardi di volte al mese un utente scopre un artista che non aveva mai ascoltato, e lo fa attraverso le playlist create da Spotify. L’artista stesso, per quanto emergente, può sfruttare gli strumenti che Spotify mette a disposizione: creare il profilo verificato, creare playlist per mettersi a contatto con i fan, analizzare i dati a cui ha accesso per capire il profilo degli utenti. Spotify è un amplificatore. 13
  • 14. Qualche mese fa Jay Z ha lanciato Tidal, che doveva essere lo Spotify dei superdivi americani. Per adesso è stato un flop. Come te lo spieghi? In realtà aspetterei, perché lo hanno lanciato da pochi mesi e si deve ancora vedere qual è la loro strategia. Come Spotify fondamentalmente siamo focalizzati sull’utente, a prescindere da cosa fanno gli altri player. Noi continuiamo con la nostra strategia e cerchiamo di migliorare. Comunque l’ingresso di altri big name aumenta la consapevolezza del settore streaming e fornisce un’alternativa legale. Nonostante i risultati ottimi, Spotify è ancora in perdita. Quando credete di poter chiudere in attivo? Se volessimo, potremmo già essere in attivo. Ma la nostra strategia è di lungo periodo e necessariamente dobbiamo investire per aprire a nuovi mercati. Nell’ultimo anno siamo passati da 20 a 58 mercati, e questo richiede un certo investimento. Siamo presenti sul mercato da 7 anni e sappiamo che dobbiamo continuare a investire anche nel prodotto stesso e non solo nello sviluppo. Per esempio con un progetto di intrattenimento a 360 gradi, 24 ore su 24, che vada anche oltre la musica. E anche questo richiede un investimento. 14
  • 15. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 15 giugno 2015 Al via la nuova sezione “La Musica è Lavoro”, in collaborazione con Medimex Per la prima volta in Italia, ilfattoquotidiano.it offre un luogo di riflessione e dibattito per raccontare il vasto e variegato mondo del lavoro musicale. Ospiteremo le riflessioni e i contributi di artisti e addetti ai lavori, i rappresentanti del mondo dell’innovazione, della discografia, della musica live, delle istituzioni, le esperienze di chi vive di musica. A partire da oggi il nostro magazine si arricchisce della sezione La musica è lavoro, nata da un’idea del Medimex, il salone dell’innovazione musicale organizzato da Puglia Sounds, che quest’anno si terrà dal 29 al 31 ottobre a Bari. Un’iniziativa che abbiamo deciso non solo di condividere, ma di rilanciare e sviluppare attraverso questo nuovo spazio. La Musica è Lavoro vuole essere uno spazio aperto in cui ribadire una volta per tutte che la musica, oltre allo straordinario valore aggiunto dato dal suo significato culturale, rappresenta un vero e proprio comparto economico con importanti ricadute occupazionali. Per la prima volta in Italia, ilfattoquotidiano.it e Medimex offrono un luogo di riflessione e dibattito per raccontare il vasto e variegato mondo del lavoro musicale. Ospiteremo le riflessioni e i contributi di artisti e addetti ai lavori, le voci più autorevoli, i protagonisti del mondo mainstream e quelli della scena indipendente, le voci fuori dal coro, i rappresentanti del mondo dell’innovazione, della discografia, della musica live, delle istituzioni, le esperienze di chi vive di musica. Insomma, un’analisi ad ampio raggio di un settore che non è solo intrattenimento ma vero e proprio comparto economico che crea valore. 15
  • 16. Van bene l’arte e l’intrattenimento, dunque, ma stiamo comunque parlando di un settore che economicamente ha il suo peso. Secondo i dati Fimi relativi al 2014, il mercato discografico è cresciuto del 4% rispetto all’anno precedente, per un fatturato di 122 milioni di Euro al sell in. I dati positivi del 2013 e del 2014 hanno decretato la fine di una crisi nera che si è protratta per undici anni consecutivi. È anche merito del segmento digitale, ormai vitale per lo stato di salute dell’intero settore, che nel 2014 ha rappresentato il 38% del mercato (era il 32% nel 2013). I servizi di streaming online, protagonisti indiscussi della nuova fruizione musicale, sono cresciuti addirittura più dell’80%. Per la precisione, +84% per i servizi sostenuti da pubblicità, +82% per quelli in abbonamento. In un panorama giocoforza sempre più orientato sul digitale, il mercato del supporto fisico continua comunque a rappresentare oltre il 60% del mercato, con un rallentamento del calo strutturale del settore che fa ben sperare. Paradossalmente, poi, in pieno boom digitale, il vinile (3% de mercato) sta vivendo una inaspettata giovinezza con una crescita dell’84%. Ma il mercato discografico è solo una parte della più ampia industria musicale: una voce importante da non sottovalutare è quella relativa agli spettacoli dal vivo, ai passaggi radiofonici e televisivi, oltre alle “semplici” visualizzazioni dei videoclip musicali su YouTube e gli altri portali sul Web. Ecco, dunque, che l’artista che registra un disco, si esibisce in tv o dal vivo è davvero solo il frontman di una band sterminata, fatta di quelle che banalmente si chiamano “maestranze”, un termine abusato che in realtà comprende centinaia di professionisti del settore. In mercati discograficamente più strutturati e ricchi (Stati Uniti in testa), si tratta di figure professionali non solo apprezzate, ma anche conosciute al grande pubblico e a volte vere e proprie star, con conti in banca degni degli attori hollywoodiani. In Italia un Pharrell Williams non esiste, ma il settore è una miniera di esperienze sconosciute, professionalità da raccontare e casi di studio che rappresentano al meglio la vitalità dell’industria musicale italiana. Un settore economico che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con una crisi feroce, ma che adesso può permettersi di rialzare la testa e tornare a innovare e sperimentare. 16
  • 17. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Domenico Naso | 15 giugno 2015 Malika Ayane: “Con i primi soldi ho comprato una giacca. Prendo ancora i dischi in negozio” L’abbiamo incontrata a margine della presentazione di Lava, il corto animato della Disney Pixar che ha doppiato con Giovanni Caccamo. Sì, perché ormai Malika Ayane ha un successo trasversale e consolidato, tanto da ricevere la chiamata di mamma Disney. Prima dell’esplosione di un talento riconosciuto da tutti, però, la cantante ha dovuto fare tanta gavetta. E la decisione di vivere di musica è arrivata grazie a un brano scritto per Valerio Scanu… Quando hai capito che avresti potuto vivere di musica? Era l’estate dopo il primo Sanremo. Al Festival ero andata grazie ai soldi prestati da mio nonno. Lì ho preso la decisione di non lavorare più in altro modo. Dopo qualche mese sono andata in Posta a ritirare la prima SIAE, perché avevo scritto un pezzo per Valerio Scanu che in quel periodo spopolava, e ho firmato il contratto con la LiveNation per il primo tour. Parliamo del primo stipendio di una emergente ma a me sembrava già di essere Madonna. Il Festival da solo non bastava? No, affatto. Il Festival ti porta popolarità, che è fondamentale perché le agenzie ti facciano delle proposte. Io ho sempre avuto idee mastodontiche ma non riuscivo nemmeno a mettere insieme una band di cinque persone con quello che mi proponevano. Avere Feeling better più in alto in classifica di Madonna e andare a Sanremo con il “caso” Come foglie, è servito perché arrivasse Live Nation con un’offerta 17
  • 18. giusta per una esordiente ma infinitamente più alta rispetto a quelle che mi avevano fatto le agenzie indipendenti. Cosa hai fatto con i primi soldi? Ho comprato una giacca da Paul Smith! Chiaramente in svendita, ma era la consapevolezza di poter spendere 300 euro per una giacca. Ora mi viene da ridere, perché basta portare le bambine a cena e al cinema e li hai già spesi. Però in quel momento ho pensato: “Ho potere d’acquisto”. Quando produci un nuovo disco sei a contatto con tantissime figure professionali. Quel è la figura centrale di questo processo? La figura centrale, e non lo dico per darmi meriti, sono io. Se non ho la salute mentale per capire cosa mi serve, gli altri possono essere anche i migliori collaboratori possibili ma non funziona. Devi essere centrato, devi sapere cosa vuoi, anche quando stai facendo una cosa più rischiosa e apparentemente sbagliata, come quando ho fatto Ricreazione, un disco senza singoli o radio particolarmente influenti, suonato come in cameretta ma con la voglia di fare esattamente quella cosa lì. In quel caso la forza era avere una band molto solida, che potesse stare chiusa per due settimane e suonare insieme, tutto il giorno, per arrivare a quello. La figura fondamentale è quella che ti serve in quel preciso momento. E nell’ultimo disco? Per quanto riguarda Naif, le figure fondamentali sono state due: Pacifico, perché dà sicurezza alla parte timorosa della casa discografica, perché stiamo investendo un sacco, e rassicura anche me; l’altra figura è Axel Reinemer, che dei due produttori era quello che stava più in contatto con i discografici italiani e li rassicurava sul fatto che non avremmo fatto cose orrendamente strane, ma contemporaneamente difendeva la voglia di fare una cosa diversa. Che rapporto hai con la musica in streaming? Non ho nessun problema con lo streaming, anzi. Ho visto la campagna di Apple per il lancio del nuovo servizio ed è bellissima. Ho l’abbonamento a Spotify su tutti i dispositivi, oltre alla scatoletta per ascoltare la musica nelle mie casse, ma vado comunque a comprare i dischi. Chi nasce in questo momento musicalmente forse sa meglio di me come sfruttare questo tipo di mezzo. Forse io sono legata a un modo anche desueto 18
  • 19. di fare la musica. Ormai potrei anche evitare di fare i booklet, invece ci tengo tantissimo. Secondo te il disco fisico, come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, sparirà? È destinato a diventare un oggetto per collezionisti come è successo con il vinile? Molte etichette fanno i dischi in vinile e insieme forniscono un codice per il download gratuito. Questa potrebbe essere una soluzione. Probabilmente ci troveremo ad avere il vinile e il CD come oggetti da collezione e il digitale come mezzo di fruizione. Siamo in un momento storico di egemonia del singolo, che può decretare il successo o il fallimento di un disco intero, ma contemporaneamente torniamo a utilizzare dei supporti (vedi il vinile) che ci portano a dover ascoltare tutto il disco. Ogni tanto ci si accanisce talmente tanto sullo stato di salute del mercato che si finisce col perdere di vista l’obiettivo che è fare dischi e farli più belli possibile. Sei uno dei rari casi, negli ultimi anni, di successo discografico senza passare dai talent… Questo è curioso. Io in realtà sono arrivata prima dell’esplosione vera e propria dei talent. Si può e si deve emergere anche senza. Il talent non ha niente di male. Non capisco questo bisogno, anzi questa ossessione, di distruggere sempre e comunque quello che non ci appartiene. Cos’è per te il successo? Quando ho fatto il primo disco ero convinta che il successo fosse la possibilità di fare il secondo e magari comprarmi un’altra giacca di Paul Smith. Mi sembrava fantastico poter essere una che va a fare la spesa e sul documento c’è scritto musicista, perché è quello che sa fare. Siamo ossessionati dalla celebrità assoluta, un concetto un po’ anni Ottanta, e allora è ovvio che non ci siano alternative al talent. Compri dischi in negozio? Sempre. A Milano ci sono due negozi di dischi che frequento spesso: uno è Serendipity, fortissimo soprattutto sull’elettronica e sul panorama indie; l’altro è Dischi Volanti, con Ferruccio che è il numero uno su musica intimista e cantautorale. 19
  • 20. Qualcosa di recente che ti piace particolarmente? Ci sono artisti a cui mi sono affezionata negli anni, come i Panda Bear, che l’altra sera ho ascoltato dal vivo ed ero così felice! Sulla scena italiana confesso di essere molto capra. Vorrei studiare un po’ di più. Però anche la scena indie sta producendo successi impensabili: basta pensare a Lo Stato Sociale, che in pochissimo tempo sono diventati un fenomeno da numeri notevoli. Tutta questa febbre da palazzetto ci fa male. È che ormai se non fai il palazzetto hai sbagliato lavoro, e invece mi piace che ci siano tante dimensioni diversificate e i numeri possono arrivare lo stesso. Hai già idee sul prossimo disco? Mi sono messa a studiare l’hip hop tradizionale. Vorrei passare dall’ispirazione al tentativo di vedere come in cose già edite ci sia la risposta alla ricerca musicale. Ti aspettavi il successo enorme del tuo ultimo singolo “Senza fare sul serio”? Sono molto sorpresa positivamente. È stato l’ultimo brano che abbiamo scritto, quindi eravamo anche sfiniti. È venuto fuori questo giochetto sul tempo e quando ho visto che, nonostante fossimo sfiniti, avevamo trovato un incastro linguistico che si adattasse sul ritmo, ho intuito che qualcosa sarebbe capitato. Con questo disco è cambiato qualcosa e spero di essere in grado di sostenerlo. 20
  • 21. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 16 giugno 2015 Giovanni Gulino: “Con Musicraiser diamo alla gente un motivo per acquistare un disco. E ora puntiamo all’estero” Il frontman dei Marta sui Tubi ha lanciato, nel 2012, il primo sito italiano di crowdfunding musicale. E ora, dopo centinaia di progetti finanziati, l’obiettivo è sfondare anche nel mondo anglosassone Per molti appassionati di musica, Giovanni Gulino è solo il frontman dei Marta sui Tubi. Che già non sarebbe poco. Ma Gulino è anche il papà di Musicraiser, la piattaforma tutta italiana di crowdfunding musicale nata nel 2012 e che oggi conta una community di 60mila appassionati. Un’idea imprenditoriale che ha alla base una concezione nuova e al passo con i tempi della produzione discografica. Su Musicraiser si finanzia la realizzazione e la produzione di un disco, ma da qualche tempo si può anche comprare il disco prima che venga realizzato, o il biglietto di un concerto abbinato a un meet & greet o al merchandising esclusivo. I risultati sono clamorosi, tanto che Gulino ha da poco lanciato Musicraiser anche a livello internazionale. Un’esperienza dai numeri importanti, ma con un occhio sempre rivolto alla qualità: “Ogni giorno rifiutiamo molti progetti. – dice Gulino – C’è una selezione all’ingresso perché vogliamo creare una community di appassionati di musica”. E, per il momento, ci stanno riuscendo. Come è nata l’idea di Musicraiser? Se guardi i siti italiani di musica, la visione è molto limitata. Mi sono accorto 21
  • 22. che in giro per il mondo il crowdfunding stava andando molto bene e non c’erano ancora dei siti focalizzati solo sulla musica. Sono appassionato di web e nuove economie, oltre che di musica, e ho pensato che avremmo potuto realizzare qualcosa di bello in Italia. Inizi difficili o siete partiti in quarta? Ci abbiamo creduto da sempre, abbiamo preparato il lancio con molta cura e siamo andati online già con 35 progetti, quasi tutti finanziati. In un periodo di crisi del mercato discografico, pensi che il crowdfunding sia lo strumenti adatto per chi non riesce a produrre un disco? In realtà oggi produrre un disco non costa nemmeno così tanto: basta avere un minimo di conoscenze tecniche. Il problema è che non basta registrare un disco: c’è la promozione, la masterizzazione, il videoclip. Se tu fai un disco e poi non hai i soldi per fare la promozione, è come se tu non lo avessi fatto. Noi proviamo a dare agli artisti gli strumenti per farsi conoscere, oltre alle risorse finanziarie per produrlo. Ci sono artisti con cento like su Facebook che vendono 3mila copie: è come se una band vendesse 10mila copie digitali su iTunes. Noi puntiamo sulla disintermediazione; se sei un artista, puoi fare un disco anche senza avere una casa discografica e puoi farti conoscere attraverso uno strumento come Musicraiser. Hai mai detto no a un progetto perché non ti convinceva dal punto di vista qualitativo? Lo facciamo praticamente ogni giorno. Non diciamo sì a tutte le proposte. Facciamo una selezione all’ingresso perché vogliamo che sulla piattaforma ci siano solo progetti seri, portati avanti da gente appassionata e che non siano speculativi. Siamo molto attenti a questo aspetto. Ogni volta che finisce una campagna di crowdfunding vogliamo sapere dove vanno a finire i soldi, vogliamo essere sicuri che dischi e ricompense vengano consegnati. Adesso su Musicraiser avete implementato altri strumenti come il wishow, il ticket preorder e l’album preoder. Stanno funzionando? Abbiamo fatto ottimi numeri soprattutto con il preorder. Abbiamo venduto i biglietti per artisti come Red Canzian o, sul fronte internazionale, St. Vincent, 22
  • 23. e per rassegne come il Festival MiAmi. La differenza che c’è tra il nostro ticketing e quello tradizionale è che noi non vendiamo solo i biglietti ma li abbiniamo ad altri servizi esclusivi: il meet and greet, il soundcheck, la t-shirt. Cerchiamo di fare in modo che il nostro sia uno store esclusivo di alta qualità per chi non si accontenta dei canali tradizionali. Questa esperienza sta cambiando il tuo modo di fare musica, visto che giochi su due fronti? In realtà no, perché tengo separato l’aspetto artistico dalle logiche di marketing. Prima di fare il musicista ho fatto il manager per dieci anni in una grande azienda del terziario e quindi ho un background di marketing che mi ha permesso di dedicarmi al progetto di Musicraiser. Ma è un altro aspetto di me che nulla ha a che vedere con la parte artistica. Qual è stato il progetto finanziato che ti è piaciuto di più? Ce ne sono tantissimi, faccio fatica a fare soltanto un nome. Ci sono campagne andate molto bene perché sono state delle sorprese, con nomi sconosciuti che hanno raggiunto budget molto alti, e poi campagne che hanno offerto qualcosa di straordinario, di bello, di divertente. Penso a Daniele Sepe, che ha appena concluso la sua campagna e tra le altre cose ha offerto persino un giro in barca…La gente non ha bisogno di un altro negozio di dischi online ma di un motivo per acquistarli. Avete lanciato Musicraiser anche a livello internazionale. Con che prospettiva? Non voglio sembrare superbo, ma la nostra piattaforma dal punto di vista tecnico non ha nulla da invidiare alle piattaforme internazionali. Abbiamo un team di sviluppatori che ha fatto un lavoro veramente straordinario e dal punto di vista tecnico siamo pressoché impeccabili. Ma chiaramente non basta: bisogna lavorare sul marketing, sull’immagine, sul posizionamento. Abbiamo già finanziato una settantina di progetti stranieri che arrivano perlopiù dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, quindi è un buon inizio. Puntiamo anche sull’estero anche perché di piattaforme come Musicraiser non ce ne sono poi così tante. Ci sono tanti siti di crowdfunding generico, che magari mettono il progetto musicale accanto a un progetto di design, ma noi vogliamo costruire una community di appassionati di musica. È per questo che non accettiamo progetti di altro genere. 23
  • 24. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Giuseppe Pagano | 17 giugno 2015 Omid Jazi: “Ricomincio da Londra, dove si può vivere di musica” Il musicista di origine iraniana vive in Inghilterra, e da lì sta costruendo un nuovo percorso musicale e lavorativo che ha già dato i suoi primi frutti. A due anni dal suo esordio solista Onde Alfa, ha scritto e registrato Tooting Bec, LP che il 1° luglio sarà rilasciato dalla Nexus Edizioni Lo chiamavano “il quarto dei Verdena”, e chi è stato al tour di Wow ne ricorda bene il tocco estroso, da musicista che non si limita ad eseguire una partitura. Il polistrumentista Omid Jazi già da un anno vive a Londra, e da lì sta costruendo un nuovo percorso musicale e lavorativo che ha già dato i suoi primi frutti. A due anni dal suo esordio solista Onde Alfa, in Inghilterra ha scritto e registrato Tooting Bec, LP che il 1° luglio sarà rilasciato dalla Nexus Edizioni. Alle spalle di Omid c’è una storia di fughe e di lotta al regime. “Mio padre uscì dall’Iran ottenendo lo status di rifugiato politico attraverso l’ONU – racconta a FQ Magazine – Aveva deciso di studiare a Perugia all’Università per Stranieri; quando poi mia madre lo raggiunse e nacqui io, in Italia ci rimasero definitivamente”. Dopo aver creato uno studio di registrazione a Modena e aver militato in diverse band, per Jazi arriva l’espatrio a Londra: “Volevo cambiare aria soprattutto” – spiega il musicista senza giri di parole. Nella capitale inglese si mantiene con la musica: “Qui ho conosciuto il talentuoso Shuta Shinoda, ovvero il sound engineer di “Tooting Bec”. Siamo entrati in sintonia e mi ha gentilmente introdotto nell’ambiente. Per mantenermi inizialmente ho continuato ad avere doppi o tripli lavori, ma ho deciso di lavorare su ciò che mi fa stare bene. Qui puoi sopravvivere nel settore musicale con soddisfazioni e profitti solo se hai le competenze, la 24
  • 25. musica in Inghilterra è qualcosa di serio per tutti”. Poi lancia la stoccata: “Ma anche in Italia ci sono possibilità secondo me. Basta saper leccare il culo”. Il polistrumentista non lesina critiche all’ambiente musicale nostrano. Innanzitutto nella pratica, svincolandosi dalle label e trovando sostegno in una casa editrice. “È una scelta insolita e ne vado fiero. Stiamo unendo due mondi, quello della cultura che si legge e quello della cultura che si ascolta. Fu il libro 432 Hz La Rivoluzione Musicale che mi attirò verso NEXUS Edizioni”. Aggiunge poi Omid: “Le etichette discografiche italiane sono spesso in mano a cartelli di cui non mi interessa far parte. Inoltre penso che alcune etichette in Italia siano come la Chiesa Cattolica, nascono con un intento e poi fanno l’opposto”. Suona insolita anche la scelta dell’italiano per un album che prende il nome di una stazione della metro londinese: “Paradossalmente penso che parlare una lingua diversa dalla tua possa agevolare lo sviluppo di una poesia personale in lingua madre, che è quello che cercavo. Metaforicamente ho rotto il Samsara mettendo ordine a qualcosa di sospeso. Un cerchio è stato chiuso e ora posso aprirmi a nuovi scenari di cui però forse è prematuro parlare”. L’artista definisce il nuovo disco come “un dono che ho voluto fare senza aspettarmi nulla in cambio”. Come nel precedente LP Jazi suona di tutto e ha curato in prima persona tutte le fasi di registrazione, ma si è circondato anche di preziose collaborazioni come le batterie di Nevruz Joku (già suo compagno nel power duo Water in face) e Matteo Rosestolato, e il basso di Jacopo “LA.po” Tittarelli Rubbioli. Oltre a una cura certosina per la produzione, “Tooting Bec” rivela un maggior protagonismo dei testi rispetto ad “Onde Alfa”. Spunti di tensione mistica dialogano con un cantautorato fantascientifico, che in Lettore di ologrammi e Multiverso trovano forma più compiuta. All’ascolto risultano immediate le influenze elettroniche e testuali del Battiato di “Gommalacca” e della psichedelia electro-pop dei Bluvertigo. Ma non solo: “Alcune influenze stilistiche derivano dalle mie letture – sottolinea Omid – Ho adottato l’esempio di Nietzsche che nella “Nascita della Tragedia” descriveva come il coro greco rappresentasse il ponte empatico tra l’eroe tragico e il pubblico”. Questo disco non si lascia solo ascoltare, ma cerca corpi da attraversare, menti da incuriosire. E forse per Omid Jazi questo sarà un motivo per tornare a suonare in Italia. 25
  • 26. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Domenico Naso | 18 giugno 2015 Nesli: “Ho scelto il pop per far felice me stesso. Mi sentivo estraneo al rap anche quando ci stavo dentro” Francesco Tarducci, in arte Nesli, è uno dei casi più interessanti del panorama musicale italiano degli ultimi anni: partito come rapper, ha abbandonato quel mondo proprio in pieno boom commerciale del genere, virando con una certa coraggiosa incoscienza verso il pop. Con Buona fortuna amore, cantata sul palco dell’Ariston all’ultimo Sanremo, e con l’album Andrà tutto bene, prodotto da Brando (reduce dai trionfi di Schiena con Emma Marrone), la metamorfosi sembra definitivamente completata. Nesli non ha rimpianti (“Mi sentivo fuori dall’ambiente rap anche quando ci stavo dentro”) e ora si gode anche i successi come autore di pezzi per altri colleghi (Tiziano Ferro ha cantanto la sua “La Fine”, mentre per Emma Marrone ha firmato “Dimentico tutto”). Ormai il tuo passaggio dal rap al pop si è concluso, anche con un certo successo. Come è successo? Quando lo hai deciso? È stata una cosa che non è avvenuta dall’oggi al domani, ma un cambiamento sviluppatosi in tanto tempo. Quella che agli occhi di terzi può essere sembrata una scelta drastico, per me non lo è stato, né nella tempistica né nei contenuti musicali. Gli ultimi due/tre album erano già indicativi di altro, per chi era più attento. Poi sono riuscito a mettere in pratica questa svolta con l’ultimo album, anche grazie alla produzione di Brando. 26
  • 27. Molti parlano del mondo del rap come un mondo un po’ snob: c’è qualcuno che ti ha detto “non lo fare”? In realtà no, ma è vero che è un mondo che snobba tutto, perché nasce con quell’accezione lì. C’era il rischio di perdere per strada qualcuno che mi ascoltava quando facevo rap, ma lo avevo messo in conto. Devo dire che la maggior parte di chi mi seguiva ha compreso il cambiamento. Era il rischio da correre per andare sempre più vicino a quello che avevo voglia di fare. Ho deciso di non accontentare gli altri, ma prima di tutto me stesso. Visto che ora ne sei fuori, che ne pensi di questa esplosione del rap in Italia? Insomma, com’è il rap nel tuo paese? È diventato molto più di qualità rispetto a quando ho iniziato io. Il fatto che sia diventato più popolare e commerciale è legato proprio a quello, alla qualità che ha acquisito. Ora ha la possibilità di parlare a un paio di generazioni diverse. A dir la verità, però, io ero fuori da quell’ambiente anche quando ci stavo dentro: non facevo mie quelle regole di genere, non ho fatto grosse collaborazioni, non amavo la mondanità di quell’ambiente. In realtà il rap è un genere ciclico: ogni tot anni deve diventare famoso e poi cadere di nuovo nel buio per recuperare l’identità originaria. È un genere che ha i paraocchi, una visione limitata. Oltre a cantare i tuoi pezzi, hai scritto anche per altri. “Dimentico tutto” per Emma ha avuto un grande successo. E tutto è cominciato quando Tiziano Ferro ha cantato la tua “La Fine”. Che differenza c’è tra scrivere per sé e per gli altri? La fortuna che ho avuto è che è nato tutto per caso, proprio grazie a La Fine. È Ferro che mi ha dato la consapevolezza di poterlo fare, consacrandomi come autore. Mi piace l’idea di continuare a scrivere per altri, è stimolante, e a me piace scrivere quindi non lo faccio con difficoltà. Come è nato il rapporto con Brando? È nato nel 2011: ci siamo conosciuti nei corridoi di Universal e Rtl, siamo andati d’accordo subito e avevamo voglia di collaborare. Ma lui lavorava per un’altra azienda, io per Carosello, quindi non siamo mai riusciti a far coincidere le cose. Abbiamo incubato questa volontà per molto tempo, diventando amici, fino a quando è arrivata l’opportunità di concretizzare l’idea nata tanto tempo fa. Al di là della collaborazione artistica, quella con Brando è 27
  • 28. l’amicizia più fortunata che io abbia mai avuto. Vederti sul palco dell’ultimo Sanremo è stata una sorpresa per molti. Come hai vissuto quell’esperienza? Ti è piaciuta? Tantissimo. La rifarei sempre. È stata un’esperienza che volevo fare da tanti anni e l’ho vissuta con entusiasmo. Chi fa questo mestiere dovrebbe ambire a Sanremo: ti forma artisticamente e umanamente. Sui social network hai una fanbase molto solida e appassionata. L’hai creata volutamente? Sì, assolutamente. L’ho creata in maniera certosina nel corso degli anni. Era nata come un esperimento sociale, ma oggi la pagina facebook Famiglia Neslini ha 1200 membri e mi dà l’opportunità di conoscere i miei fan. Si è creata una rete sociale di persone vere con legami veri. Il prossimo passo qual è? A cosa stai lavorando? Ho quasi finito il libro, che dovrebbe uscire a settembre. E uscirà il repack del mio album con un sacco di sorprese all’interno. A luglio avrò un po’ di eventi live che mi vedranno in giro per l’Italia. Due tra tutti: il 16 luglio al Postepay Summer Festival di Assago e il 17 a Porta di Roma. Permettimi una digressione. Durante l’ultimo Festival di Sanremo i social network si sono scatenati a interpretare un verso della tua canzone, che diceva testualmente “dammi l’amore in faccia”. È quello che sembra? In realtà “Buona fortuna amore” è un brano molto sessuale. La gente pensa “ma non dirà quello”, e invece sì, dice proprio quello. Poi è romanzato, inserito in un contesto poetico, ma la prima ispirazione di base è quella sanguigna e istintiva, che ovviamente non puoi mettere in una canzone in maniera volgare. Ma è esattamente come l’avevano pensata in tanti. 28
  • 29. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 19 giugno 2015 Max Casacci: “Cultura popolare e avanguardia devono mescolarsi. Bisognerebbe far giocare i ragazzi con la musica” Il chitarrista dei Subsonica parla di Specchio, l’ultimo singolo della band torinese, del tour appena cominciato e del rapporto strettissimo costruito con i fan negli ultimi diciotto anni: “Ai nostri concerti già vediamo padri e figli insieme”. Max Casacci non è solo il fondatore e il chitarrista dei Subsonica. Per gli appassionati di musica è anche uno dei produttori più stimati del panorama discografico italiano, un artista dalle mille sfaccettature che nella sua carriera ha spaziato dalla Biennale di Venezia al Festival di Sanremo, senza preoccuparsi delle presunte contraddizioni: “Credo molto nella necessità di mescolare la cultura popolare con l’avanguardia, perché altrimenti non è vera cultura popolare, non è specchio dei tempi. Anche una semplice canzone può ambire a diventare un’opera d’arte”. Specchio, l’ultimo singolo dei Subsonica, parla di un tema molto importante e delicato: l’anoressia e i disturbi alimentari in generale. Come mai avete deciso di affrontare questo argomento? Stavo inquadrando il personaggio di questa canzone, che è anche un po’ allegra, ubriacona, sghemba, tutto sommato solare. Stava prendendo forma una di quelle figure classiche degli anni Zero: chi vive un’adolescenza innaturale, si mette di fronte allo specchio e si rende conto di certe incongruenze e di certe lacune esistenziali. Era iniziata un po’ così. Poi, digitando le parole chiave di questo pezzo su un motore di ricerca, con Samuel ci siamo trovati di fronte a un blog sull’anoressia, che si chiama “Amiche di 29
  • 30. Bia”, con testimonianze molto toccanti e ci siamo resi conto che il nostro personaggio parlava anche di quello. L’argomento è delicato, complesso e abbastanza scivoloso, al punto che io ho pensato di fare retromarcia. Tuttavia, in quel periodo una delle persone a noi più care (che peraltro ha curato la copertina del disco) aveva un problema di quel tipo molto grave in famiglia. E per casualità altre persone che conoscevamo si erano trovate di fronte a vicende simili. Ci siamo resi conto che una delle cose più drammatiche relative a questo fenomeno è la sensazione di impotenza totale. È un disagio foderato da un tabù impenetrabile. Ci siamo fatti forza, abbiamo chiesto la consulenza di esperti che operano nel campo e abbiamo deciso di affrontarlo. Poi abbiamo chiesto a Luca Pastore, che già aveva firmato il video di Disco Labirinto per persone sorde, di realizzare il video. Non volevamo essere troppo didascalici. Il nostro ruolo non è quello di insegnare qualcosa a qualcuno. Il compito degli artisti è gettare un sasso nello stagno. E noi abbiamo fatto questo. Da qualche giorno è partito il vostro tour. La dimensione live ha sempre avuto un’importanza molto forte nell’esperienza dei Subsonica. Quanto conta stare a stretto contatto con il vostro pubblico? Conta più di un’ospitata in tv? Non disdegniamo il rapporto con i grossi media, anche perché sappiamo in che mondo e in che epoca viviamo. Tuttavia, a distanza di 18 anni, ci rendiamo di quanto sia stato importante creare un rapporto solido, quasi ombelicale, con il nostro pubblico, attraverso i concerti o il controllo del prezzo dei biglietti. E poi abbiamo un rapporto quotidiano e costante. Già nel 1999, avevamo un blog quando ancora non si usava la parola blog. Ormai esiste un codice, un patto narrativo che include anche una sorta di humour condiviso. E poi, avendo il live come stella polare, in questo momento di cambiamenti radicali nella musica, siamo avvantaggi. Siamo una delle poche realtà che dal vivo continuano ad avere una bella resa, anche in termini di numeri. Stiamo cominciando ad accogliere ai nostri concerti ragazzi nati quando cominciavamo a suonare. Sta per scattare la seconda generazione di fan dei Subsonica? Sì, abbiamo già visto padri e figli insieme ai nostri concerti. 30
  • 31. Oltre che musicista e fondatore dei Subsonica, sei anche uno dei produttori più stimati del panorama musicale italiano. Come è cambiato il modo di produrre un disco dai tuoi esordi a oggi? Sono cambiate innanzitutto le tecnologie. Io taglio ancora i nastri con le forbici, ma scelgo se usare analogico e digitale in base all’artista con cui lavoro. In realtà quello che non cambia, al di là della tecnologia usata, è l’impatto emotivo di quello che stai facendo. Bisogna astrarsi e tenere in considerazione chi ascolterà quella canzone. Nel corso della tua carriera hai spaziato in campi anche poco convenzionali o diversi tra loro: dalla Biennale di Venezia a Sanremo, passando per Planetario. Hai fatto tutto: è una continua ricerca musicale? La mia è voglia di ascoltare musica. Non mi nego lo stupore, anche di fronte alla musica che in questo momento viene fatta da chi ha la metà dei miei anni. E visto che continuo ad ascoltare musica, automaticamente viene voglia di tentare nuovi esperimenti. Io credo molto nella necessità di mescolare la cultura popolare con l’avanguardia, perché altrimenti non è vera cultura popolare, non è specchio dei tempi. Credo molto nel fatto che una semplice canzone possa ambire a diventare un’opera d’arte. Non ci si deve assolutamente frenare e soprattutto è sbagliato pensare che l’artista debba essere condizionato dal pubblico. Spesso è proprio il pubblico a chiedere di essere condotto per mano. A proposito di assecondare i gusti del pubblico: siamo nell’epoca dei talent show. Che pensi di questo fenomeno? Innanzitutto mi sono stufato delle letture ideologiche applicate alla musica perché in passato hanno creato disastri. Ma tendenzialmente a me non piace la televisione e credo ci sia un equivoco di base nella lettura del fenomeno: non sono un fenomeno musicale ma televisivo, con la narrazione tipica della tv. Il fatto che i ragazzi vendono ai propri coetanei non è una novità. Oggi sono quelli dei talent, prima era chi faceva hip hop. Un quindicenne è più attratto dalla voce di uno che ha la sua stessa età, che tratta temi che per gli altri sono già sentiti mille volte, ma per lui sono nuovi. Detto questo, la musica è una cosa, la televisione è un’altra. Non bisognerebbe confondere i due aspetti. Fino agli anni Novanta sui media c’era più spazio per tante altre cose, oggi quello spazio è molto ristretto. Nell’arco di quattro mesi, 60-70 canzoni 31
  • 32. monopolizzano lo spazio su tv e radio, e questo è un problema perché la produzione musicale in Italia è più ampia, perché ci sono nuove etichette indipendenti, perché c’è chi ci crede e non si è arreso. Bisognerebbe diversificare gli spazi. La musica è praticamente scomparsa dalla scuola italiana. Quale approccio bisognerebbe usare sotto questo punto di vista? Bisognerebbe far giocare i ragazzi con la musica. La musica è un fluidificante pazzesco di tutto il resto. A livello artistico, scientifico, imprenditoriale: è una risorsa da tenere in considerazione. Con la musica si possono sperimentare aspetti ludici. Qualche giorno fa sul nostro Facebook abbiamo postato la versione in latino di un nostro singolo di qualche anno fa, “La Glaciazione”. Come mai esiste una versione in latino di una nostra canzone? Perché un professore di latino di Verona l’ha fatta tradurre ai suoi studenti. Poi ha creato una base e l’ha cantata in latino, con gli studenti che fanno il ritornello in coro tipo The Wall. Ecco, la musica permette questo genere di cose. 32
  • 33. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 20 giugno 2015 Folliero (Sziget Festival): “In Italia non si riesce nemmeno ad allestire un campeggio. Serve meno burocrazia” Dal 2004, con la sua L’Alternativa, il manager pugliese è il volto italiano del grande evento musicale dell’estate a Budapest. Quest’anno la line up è di alto livello (Florence + The Machine, Robbie Williams, Marina and the Diamonds, solo per citarne alcuni) e per l’Italia ci saranno, tra gli altri, Après la classe e Lo Stato sociale. Con la sua L’Alternativa, Ettore Folliero è il volto italiano del Sziget Festival di Budapest, uno degli happening musicali più famosi d’Europa. Anche quest’anno, l’impegno di Folliero per promuovere l’evento nel nostro Paese è stato ciclopico: dall’organizzazione dei viaggi dei tanti ragazzi che vogliono vivere quell’esperienza allo scouting di band emergenti, fino alla selezione dei gruppi italiani che avranno l’onore di suonare sul palco della suggestiva isola in mezzo al Danubio. Quest’anno l’appuntamento è dal 10 al 17 agosto, con una line up che fa tremare le vene ai polsi: Robbie Williams, Florence and the Machine, Major Lazer, Kasabian, Avicii, Marina and the Diamonds, Gogol Bordello, Asaf Avidan e tantissimi altri grandi nomi della musica mondiale. Cosa fa per il Festival ungherese? Lavoro ufficialmente per il Sziget dal 2004. Questo evento ha oltre venti promoter nelle varie nazioni, e noi siamo stati forse i primi promoter europei. Curiamo tutta la promozione, la vendita, l’organizzazione di viaggi, 33
  • 34. partecipiamo ad alcuni progetti interni e collaboriamo anche per il booking delle band italiane chiamate a suonare a Budapest. La line up di quest’anno è incredibile. Come si spiega il fatto che da noi non ci siano Festival di questa entità? In Italia molto probabilmente ci sono problemi dal punto di vista burocratico. Da noi spesso non riescono nemmeno ad allestire un campeggio perché manca tutta una serie di autorizzazioni, nemmeno così difficili da dare, ma nessuno vuole assumersi la responsabilità. E poi, forse il pubblico italiano non si è mai abituato a vivere una situazione da Festival. È un’esperienza che richiede una partecipazione continua, dalla mattina alla sera. Gli italiani sono un po’ freddi. In giro per il mondo i Festival di successo hanno anche un ritorno economico enorme per le città che li ospitano. Non c’è spazio per creare una cultura dei festival in Italia? Non metto limiti alla Provvidenza, anche perché ultimamente il concetto di Festival sta diventando trendy. Le esperienze dei ragazzi all’estero stanno creando uno zoccolo duro che sarà il pubblico dei Festival italiani dei prossimi anni. In Italia molti eventi dal passato glorioso, ora stanno vivendo un periodo di forte crisi, basti pensare al caso Arezzo Wave. Un consiglio per farli funzionare? Non conosco l’esperienza Arezzo Wave, ma come altri festival ha avuto un peccato originale: vivere sui fondi pubblici. Se si vuole intendere la musica come un comparto imprenditoriale non ci si può basare solo sulle concessioni del comune o della regione di turno. Si deve sviluppare un’economia intorno a un evento, in modo da non essere vincolati sistematicamente agli umori della nuova giunta o del nuovo assessore. Lei ha anche il compito di selezionare i gruppi italiani che partecipano al Sziget. Quest’anno ci saranno Après la classe, Fast animals and slow kids, Lo Stato Sociale, Canzoniere grecanico salentino, Roy Paci e Mario Rossi, un percussionista di strada che usa solo strumenti improvvisati. Quale criterio ha usato nella 34
  • 35. scelta? Lavoriamo molto con la musica emergente e grazie al contest che organizziamo dal 2004 abbiamo potuto conoscere bene la scena musicale italiana. Quando si inizia a conoscere la filiera dello sviluppo della musica, è abbastanza semplice individuare le band che secondo noi sono adatte per il Sziget. Cerchiamo di portare sempre la qualità, ma ovviamente dobbiamo coniugarla con la notorietà. Si può ancora fare scouting nell’epoca dei talent show? Sono due canali totalmente diversi. Non vendiamo a nessuno il sogno di diventare ricchi e famosi. Promettiamo solo di essere ascoltati, valutati da persone che lavorano nel settore e nel caso garantiamo una possibilità. Non è facile emergere in questo mondo. Quanto conta il live in un momento di crisi del settore discografico? È fondamentale. E questo ha creato i presupposti per lo sviluppo del settore dei Festival. Fino a poco tempo fa, quando ancora si vendevano i dischi, gli artisti tendevano a suonare meno, anche perché fare un tour non è semplice. Prima una tournée si faceva ogni tre anni, ora praticamente ogni anno. Questo girovagare degli artisti per il mondo ha dato la possibilità ai Festival di avere molta più scelta per presentare line up di livello. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: alcuni artisti li ritrovi ogni anno a suonare allo stesso Festival, e diventa un po’ noioso. Qualche settimana fa Jovanotti, parlando all’Università di Firenze, ha detto che non vede niente di male se i giovani fanno i volontari gratis per i grandi Festival musicali, perché si tratta di esperienze formative. Le sue dichiarazioni hanno provocato molte polemiche: lei che ne pensa? Quando si pronunciano delle frasi del genere, soprattutto se sei così famoso, è facile essere fraintesi. Dal mio punto di vista non vedo nulla di scandaloso nel fatto che delle persone facciano i volontari in un progetto articolato come un festival. I giovani, se vogliono intraprendere questa carriera, non hanno molte scelte: o rischiano sulla loro pelle, perdendoci tanti soldi come molti che hanno iniziato questa attività, oppure fanno una specie di stage e acquisiscono le nozioni di base. È uno scambio alla pari tra datori di lavoro e giovani volontari. 35
  • 36. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 21 giugno 2015 Jarrett Koral, diciassette anni e un’etichetta discografica che produce vinili L’adolescente americano ha dovuto vendere la sua personale collezione di vinili per far fronte alle spese della prima uscita in assoluto della sua etichetta: un disco della band di Detroit After Dark Amusement Park nel 2012. Jarrett Koral ha 17 anni, sta per finire il liceo e vive a Detroit. Fino a qui, nulla di strano: occhialuto, faccia da nerd, un viso che dimostra meno anni, uno dei tanti ragazzotti americani. Quello che lo rende diverso dai suoi coetanei, però, è che Jarrett è proprietario di una etichetta discografica su vinile. Settore di nicchia, quello del buon vecchio dischio, ma che nei primi mesi del 2015 è comunque cresciuto del 53% negli Stati Uniti rispetto all’anno precedente (in Italia lo scorso anno la crescita è stata addirittura oltre l’80%). E il giovane Jarrett, che dei vinili è innanzitutto fan, ha pensato bene di fondare la sua Jett Plastic Recordings che quest’anno ha pubblicato la cover band dei Velvet Underground guidata dall’ex enfant prodige di Hollywood Macaulay Culkin. E non si tratta di un capriccio passeggero di un adolescente annoiato, visto che almeno altri sei dischi vedranno la luce nei prossimi mesi. Il Guardian, che racconta la curiosa vicenda imprenditoriale, fa sapere che l’adolescente americano ha dovuto vendere la sua personale collezione di vinili per far fronte alle spese della prima uscita in assoluto della sua etichetta: un disco della band di Detroit After Dark Amusement Park nel 2012. Ancora studia, Jarrett, e non ha la minima intenzione di interrompere. Anche perché far soldi non sembra la sua prima preoccupazione. Di tempo libero ne ha sempre meno, anche perché gli affari non vanno male, nonostante il vinile 36
  • 37. continui a essere un settore di nicchia: +260% dal 2009, per una quota del mercato discografico americano che si aggira attorno al 4%. “Non mi stupisce questo ritorno in auge del vinile” – afferma Koral, che è cresciuto nel negozio di dischi di famiglia – “Ho passato anni circondato da amanti dei dischi e che per tutta la vita non hanno fatto altro che collezionarli” Ma il giovanissimo Jarrett non ha fretta: “Voglio prendere le cose con calma e vedere come andrà questa avventura”. E non c’è nessun tipo di snobismo nei confronti del digitale, perché in fondo Koral è figlio dei suoi tempi e sa che è necessario fare i conti con il trend generale: “Sono aperto a ogni tipo di sviluppo e non escludo di allargarmi anche al settore digitale”. In Italia forse una realtà del genere non potrebbe esistere. Questione di mentalità, innanzitutto, ma anche di impostazioni e caratteristiche del mercato discografico nostrano. Anche se, in fondo, non sembra un’impresa impossibile: pubblicare un disco costa all’etichetta di Jarrett circa 2mila dollari, mentre finanziare un intero album ha costi più elevati. Cifre che non sembrano comunque impossibili, neppure per un giovanissimo imprenditore come lui. Qualcuno vuole raccogliere la sfida e diventare il Jarrett Koral italiano? 37
  • 38. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 22 giugno 2015 Marabotti (Vivo Concerti): “Il live è solo il coronamento di un percorso. Quest’estate non perdetevi Nutini e i Muse” La discografia si sta riorganizzando dopo la grande confusione degli anni Duemila, con la pirateria e Internet. Il live ne ha beneficiato, perché gli artisti ormai non hanno nella vendita dei dischi l’entrata economica maggiore e organizzano un tour quasi ogni anno Responsabile comunicazione di Vivo Concerti, Marcello Marabotti ha il polso della situazione della musica live in Italia come pochi altri. Tra interazioni sempre più indispensabili con il Web e necessità crescente degli artisti di organizzare sempre più tournée, ecco che anche i dischi prodotti ormai sono pensati principalmente per la dimensione live. E poi, immancabili, i consigli per l’estate: da Paolo Nutini ai Muse, passando per Linkin Park, Damien Rice e Florence. Che momento è per la musica live in Italia? È un momento esplosivo. Il live ormai è l’unico vero grande momento di interazione e condivisione tra artisti e fan, che grazie alla tecnologia si è sviluppato ancora di più. È un momento di svago e divertimento, il coronamento del sogno della condivisione di un interesse musicale. Cosa ha fatto e cosa può fare il web per aiutare il settore? È una caratteristica e un’opportunità fondamentale. Io sono stato fortunato perché Vivo Concerti ha da sempre una visione orientata al web. Abbiamo sempre tenuto un occhio vigile sulle nuove tecnologie e stiamo cercando di 38
  • 39. lavorare sempre più a stretto contatto con partner come Facebook, Twitter, Spotify. Lo scorso anno abbiamo realizzato un progetto molto interessante con Subsonica e Google, con interazione tra band e fan sia prima che durante il concerto. Non abbiamo nessuna paura che il Web possa danneggiare il live. Anzi, stiamo lavorando per mostrare alle persone quanto più possibile del concerto che promuoviamo. Il live conta ancora di più in un periodo così difficile per le vendite di dischi? In questo momento la discografia ti porta a un ascolto molto personale e solitario, con il concerto succede esattamente il contrario. È una festa. Ovviamente, ora la discografia si sta riorganizzando dopo la grande confusione degli anni Duemila, con la pirateria e Internet. Il live ne ha beneficiato, perché gli artisti ormai non hanno nella vendita dei dischi l’entrata economica maggiore, quindi organizzano tour quasi ogni anno, passando anche tre o quattro volte dallo stesso paese. E poi gli artisti ultimamente producono dischi già molto orientati verso il live. Basti pensare all’ultimo lavoro dei Muse, che dal vivo ha una potenza impattante. Quanta comunicazione c’è nel successo di un evento live? Noi non finiamo mai di fare comunicazione. Per noi il concerto non è l’unico interesse. Lavoriamo sull’artista, sul suo posizionamento, e lo facciamo in tutti i canali: Facebook, Twitter, Instagram, Google. È un lavoro che ci ha permesso di ottenere risultati enormi in termini di like e followers. In Italia, tra i promoter, siamo gli unici che fanno questo tipo di lavoro. Abbiamo un progetto editoriale che parte dall’annuncio delle date e continua nei giorni che ci separano da un concerto ma anche nei giorni successivi. Lavoriamo molto anche sull’uscita discografica. L’evento è solo il coronamento di un percorso. Quali sono i concerti da non perdere quest’estate? Sicuramente Paolo Nutini, che domani inizia il minitour italiano da Trieste e che poi rivedremo a luglio. Abbiamo lavorato molto su Nutini: lo scorso anno abbiamo fatto una diretta radio da Roma che ha cambiato il suo percorso in Italia. A novembre poi ha fatto sold out al Forum con un concerto fantastico. Poi Muse e Linkin Park, a Roma, ma sarà stupendo anche Damien Rice a 39
  • 40. Villafranca, in una cornice molto adatta a quest’artista. Poi il ritorno degli Interpol e adesso abbiamo annunciato anche Florence, con una risposta incredibile da parte del pubblico. 40
  • 41. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 23 giugno 2015 Tricarico: “I talent show? Una barbarie. La musica non ha più poesia” A quindici anni dal tormentone “Io sono Francesco”, il cantautore milanese torna con “La Mela”, che racconta con un realismo quasi rassegnato la situazione attuale del nostro Paese, tra uomini della Provvidenza e incapaci È sempre il personaggio stralunato e sognatore degli esordi e del tormentone “Io sono Francesco” (numero 1 in classifica nel 2000), ma Francesco Tricarico oggi è anche un artista che ha superato da qualche anno i quaranta, ha accumulato una certa esperienza, ha collaborato con alcuni grandi nomi della canzone italiana e oggi può permettersi anche di uscire con un singolo molto politico (“La Mela”), che racconta con un realismo quasi rassegnato la situazione attuale del nostro Paese. Continua a essere un irresistibile alieno, in un mondo della canzone che sente sempre più distante dal suo modo di intendere la musica, e non ha problemi a scagliarsi contro il fenomeno pigliatutto del talent show: “Una barbarie!”. Il tuo ultimo brano “La Mela” è sull’Italia e sulla situazione politica, sociale ed economica attuale. Sbaglio o è un pezzo un po’ pessimista? Pessimista no, è realista. Il momento è difficile ma soprattutto ci sono persone incapaci, in tutte le posizioni: nella musica, nella cultura, nella politica. Non sono proprio in grado. Tra i politici non salvi nessuno? Non mi chiedere dei nomi, non mi schiero. Non fa parte della mia etica prendere una posizione. E poi io scrivo anche per i maiali: a me interessa che 41
  • 42. quello che faccio arrivi a tutti. Mi interessa la verità. Schierandomi già farei un torto a qualcuno. Sicuramente c’è qualcuno che apprezzo più degli altri, pochi. Qualcuno si salva, magari un giorno ti faccio i nomi… Hai sempre vissuto la musica in maniera timida, almeno all’apparenza. Ci spieghi cosa significa per te fare musica? Innanzitutto è il mio mestiere. È come se io fossi un artigiano andato a bottega: l’ho imparata da piccolo, facendo il Conservatorio. È quello che so fare, che poi fortunatamente ha a che fare con la mia persona. Ho tanti conflitti dentro di me e la musica mi ha permesso di metterli a fuoco. In un periodo di crisi del mercato, ha ancora senso fare dischi? Sì, alla musica del mercato non è mai fregato più di tanto. Una volta c’erano i mecenati, al tempo di Mozart o Bach. C’era la Chiesa, c’erano i committenti, i nobili, i regnanti. Poi il mercato era diventato il mecenate, ossia se tu vendevi andavi avanti. Ma c’è sempre bisogno di musica. Il problema è che sono cambiate delle cose attorno, fattori economici che sono estremamente ridicoli in questi momenti. Cosa pensi del fenomeno dei talent show? I talent sono la barbarie. La musica non deve essere quello, è una cosa ridicola. Siccome la musica in crisi, poi, non è solo un fenomeno tra i tanti ma IL fenomeno, perché gli investimenti sono tutti lì. Se ci fossero anche altre cose, non me ne fregherebbe nulla, ma ahimè me ne frega perché vedo tutti inginocchiati davanti a certi personaggi, davanti al potere dei talent. Probabilmente lo farei anche io se mi chiedessero di condurne uno, perché in fondo siamo tutti poveri e si fa tutto. Ma a volte ci si svende, e la musica non si meritava di abbassarsi a questo. Com’è la musica al tempo dei talent? Non c’è più mistero, non c’è più poesia. Esci da un talent, sei Mengoni, sei Emma, sappiamo tutto di te, sei controllabile, ricattabile. Sei normale, mentre una volta la normalità non c’era, c’era l’eccezione. Oggi l’eccezione preoccupa, siamo alla normalizzazione di qualcosa di anormale, di aggressivo, di rivoluzionario. Prima si aggregavano le persone, adesso che ti aggreghi? Andando a sentire Emma non ti aggreghi, ma potrei fare anche tutti i nomi di chi è uscito da un talent. E parlo da ascoltatore, non da interprete, perché a 42
  • 43. parte qualche canzone io non sono mai passato in radio, sicuramente per colpa mia e mancanza mia. Ma la musica è stata svilita da tutte le persone che ci lavorano attorno: dall’editoria musicale fatta coi piedi, dai talent che trattano la musica con le categorie di giusto e sbagliato, categorie che non ci dovrebbero essere. C’è l’arte, la verità. La canzonetta nel suo piccolo ambisce a quello. Chiunque ambisce a quello, anche il mio panettiere che è un fuoriclasse, un artista. È vero, sincero, è da solo. Ha a che fare con se stesso, con la propria coscienza. E la coscienza è stata rimossa. C’è qualcuno che ti dice cosa è bello e cosa è brutto e chi ascolta musica è vittima inconsapevole di questo. È un momento terribile. 43
  • 44. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 24 giugno 2015 Beatrice Rana: “Per affermarmi sono andata all’estero. In Italia serve una vera educazione musicale nelle scuole” Classe 1993, la pianista pugliese ha conquistato le platee di mezzo mondo con il suo talento cristallino: “L’Italia mi ha dato moltissimo, ma Francia e Stati Uniti sono stati decisivi per cominciare il mio percorso”. Beatrice Rana è nata nel 1993 eppure, a soli 21 anni, è una delle punte di diamante del panorama concertistico italiano. A 18 anni aveva già vinto il primo premio al Festival di Montreal, e da allora è stata una marcia trionfale in giro per il mondo, suonando il suo pianoforte nei teatri più importanti del pianeta, diretta anche da mostri sacri come Zubin Mehta. Ma Beatrice è partita da Lecce e, nonostante il successo planetario, non ha reciso il legame profondissimo con la sua terra d’origine. Nonostante tutto, nonostante lo stato non certo florido della scena concertistica in Italia. Sei giovanissima ma hai già un curriculum prestigioso. Come ti sei avvicinata al pianoforte? Sono nata in una famiglia di musicisti: entrambi i miei genitori sono pianisti quindi per me era quasi una normale conseguenza. In casa li vedevo sempre dare lezioni ai bambini e pensavo che suonare il piano fosse una cosa che si faceva in ogni casa, tutti i giorni. La prima volta che mi sono accorta che non era esattamente così fu uno choc. 44
  • 45. Tra le tante esperienze in giro per il mondo, qual è stata la più significativa? Sicuramente il mese scorso alla Scala. Il Teatro alla Scala è importantissimo, ma per un’italiana è un vero e proprio tempio. Qual è la differenza tra la scena concertistica in Italia e all’estero? L’Italia è un paese che amo tantissimo e che mi ha dato tante soddisfazioni. Ma c’è da dire che io sono dovuta andare fuori per iniziare il mio percorso. Qui non avrei avuto la possibilità di affermarmi. È bello tornare in Italia, ma paesi come Francia e Stati Uniti mi hanno dato tantissimo all’inizio. Francamente tornare nella mia Puglia ogni volta è una coltellata al cuore: anche l’orchestra della mia città, Lecce, sta chiudendo. Qui si può ascoltare musica classica solo su YouTube… Cosa si deve fare per avvicinare i più giovani alla musica classica? Educarli, innanzitutto. Nelle scuole dovrebbe esserci una vera educazione musicale. Quando un bambino conosce la musica, poi può decidere da solo se gli piace o meno. In questo momento invece siamo vittime di un pregiudizio, secondo cui la musica classica è noiosa e per vecchi. Io sono la prima dimostrazione che questo non è vero, proprio perché ho conosciuto la musica in maniera non fuorviata. Ascolti musica pop? Sì, io ascolto di tutto. Ovviamente è un ascolto distratto, perché sono concentrata sulla classica. Ma categorizzare la musica è sbagliato. Per esempio, Beyoncé ha fatto una canzone che io definisco “classica”. E allora perché Beyoncé è una cantante da milioni di ascoltatori e Rachmaninoff è per pochi eletti? Questo è il punto. Che platea è quella che segue i tuoi concerti? Essendo giovane, ho il vantaggio di attirare un pubblico giovane. Dipende anche dal posto in cui suono, ma mi fa piacere vedere che i giovani non mancano. Non punto a un pubblico colto. Gli ascoltatori musicalmente colti saranno sempre interessati alla musica classica, però vengono a un concerto pieni di sovrastrutture. Chi non è assiduo frequentatore di concerti, invece, si avvicina alla classica con più apertura. 45
  • 46. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Silvia Rossi e Luca Catasta | 25 giugno 2015 Andrea Nardinocchi: “Il mio Supereroe, tra Ace Ventura e Prince, con un occhio a Michael Jackson” “Non esistono persone speciali. Solo persone uniche, con il potere di fare l’unica semplice cosa che può rendere indistruttibili: esprimersi, senza paura”. È Andrea Nardinocchi che parla, classe 1986, bolognese, una vita dedicata al freestyle basket e un’altra iniziata da un po’ dedicata alla musica. Lo ricorderete per lo street video d’esordio Un posto per me girato con la tecnica del reverse-shooting (praticamente tutto al contrario) dove cammina, ballando lungo le sponde del naviglio milanese. Viene poi selezionato per la categoria giovani al Festival di Sanremo 2013 con una “Storia impossibile”, brano all’interno del suo album di debutto, e il 16 giugno è uscito su etichetta Universal Supereroe, il secondo disco di inediti in cui segue un unico mantra, quello del non avere paura di esprimersi. E lo fa davvero in Hu! Eh!, dove gioca con l’immagine e crea un nuovo personaggio. Si presenta in versione a colori fluo, vestito di pelle, con capelli cotonati: “In questo percorso di ricerca ho capito che se prima mi vergognavo a girare una clip adesso immagino che quello che si vede non sono io ma un personaggio” ha spiegato Andrea. “Qui ho pensato a un incrocio fra Ace Ventura e Prince”. Dodici tracce pop che rimandano alle sonorità degli anni ’80, con ritmi che vanno dal funk all’elettronica, strumenti digitali, beatbox, loopstation e campionamento vocale. Sono queste le caratteristiche della musica di Nardinocchi che per questo progetto ha coinvolto anche Elisa che con una supervisione ampia ha dato ad Andrea anche quella tranquillità che un po’ gli 46
  • 47. è mancata in precedenza. “Supereroe” è stato anticipato dal singolo L’Unica Semplice e oltre al video “Hu! Eh!” c’è anche Come M.J., un brano che si ispira a Michael Jackson, uno dei suoi idoli musicali, girato in stop motion con l’utilizzo di una grafica che richiama il mondo dei fumetti e quindi dei supereroi. 47
  • 48. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 26 giugno 2015 Glastonbury, il festival musicale dei grandi numeri: 135mila paganti per una line- up d’eccellenza Da The Who a Kanye West, il top della musica mondiale si dà appuntamento in Inghilterra di fronte a 175mila persone. L’happening ha coinvolto più di 3 milioni di persone in trentatré edizioni, con incassi complessivi oltre i 300 milioni di sterline È cominciato mercoledì (e si concluderà domenica sera) il festival di Glastonbury, in in Inghilterra, uno degli happening musicali più famosi del mondo, e senza alcun dubbio il più famoso d’Europa. Probabilmente ci sarà il solito fango, perché il clima britannico è quello che è, ma la line up di quest’anno, come sempre, è da far tremare le vene ai polsi. La vasta area di Pilton, nel Somerset, è già stracolma di gente arrivata da ogni angolo del mondo per uno dei pochi festival a livello globale che riesce ancora a conservare un’aura leggendaria. Siamo arrivati alla trentatreesima edizione di quello che ufficialmente si chiama Glastonbury Festival of Contemporary Performing Arts, organizzato per la prima volta nel 1970 dal proprietario della fattoria Michael Eavis. Oggi Glastonbury ospita 175.000 persone, di cui 135.000 paganti, con i biglietti andati a ruba nel tempo record di 26 minuti lo scorso ottobre. Sono tantissimi anche i volontari delle tre ONG che Michael Eavis ha scelto di supportare: Oxfam, WaterAid e Greenpeace. L’happening inglese, che in totale ha ospitato quasi 3milioni di spettatori e incassato qualcosa come 325 milioni di sterline, si prepara a un weekend mostruosamente ricco di grandi nomi della musica mondiale: Florence + The Machine, Motorhead, Mary 48
  • 49. J. Blige, Kanye West, Pharrell Williams, Paloma Faith, Burt Bacharach, George Ezra, Paul Weller, Lionel Richie, Patti Smith, Hozier, fino ad arrivare alla chiusura leggendaria con The Who. Una line-up che dalle nostre parti non è facile da mettere insieme nemmeno in un secolo, e che ancora una volta evidenzia la distanza siderale che esiste tra la cultura dei festival musicali in giro per il mondo e in Italia. Anche non volendo considerare l’enorme portata artistica e culturale di un happening del genere, basterebbe dare un’occhiata al ritorno economico per cominciare a farci un pensierino. 49
  • 50. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Domenico Naso | 27 giugno 2015 Raf: “La crisi della musica è cominciata negli anni Ottanta. Da allora si è solo replicato il passato” Ha attraversato quattro decadi di canzoni, sempre con grande successo popolare, ma Raf non ha un’opinione lusinghiera dei talent show, espressione massima del pop dei giorni nostri: “Bob Dylan oggi non ce l’avrebbe fatta” Quattro anni dopo l’ultimo album, torna sul mercato discografico uno dei più longevi e apprezzati cantanti italiani: Raf. Il suo “Sono io” è un album pop con evidenti venature di impegno sociale, tanto che è lui stesso a dire che “fare un disco di musica leggera non è mai stato un lavoro leggero”. Ha attraversato quattro decadi di musica, sempre con grande successo popolare, ma Raf non ha un’opinione lusinghiera sui talent show, espressione massima della musica pop dei giorni nostri. Piuttosto, se fosse un esordiente oggi, in un momento di crisi strutturale del settore, si affiderebbe al Web. “Sono io” che fase della tua carriera rappresenta? È un album di musica pop così come faccio ormai da tanti anni, ma si spinge al limite oltre il quale non sarebbe più pop. Per fare questo c’è un insospettabile lavoro certosino di sperimentazione che non è così leggero. Per me fare un disco di musica leggera non è mai stato un lavoro leggero. È un disco che racchiude delle ballade d’amore che sono alla base della canzone popolare ma ci sono anche brani che toccano problematiche sociali. Nella musica leggera ci si può anche permettere di guardarsi attorno e dire la propria. L’ho fatto anche nei dischi passati, senza paura di perdere consensi. Dico delle cose che per un cantante di musica pop sono scomode, ma che per 50
  • 51. la verità oggi nemmeno i cosiddetti cantautori impegnati dicono più. Oggi c’è musica pop ovunque, anche in quella che grazie a lavori di marketing può apparire più impegnata. Nel disco c’è anche Come una favola, il pezzo che hai presentato all’ultimo Sanremo. Esperienza sfortunatissima. Ci torneresti il prossimo anno? Non lo so, perché le mie presenze a Sanremo sono state segnate da risultati non certo positivi. La prima volta portai al Festival Inevitabile follia, che arrivò addirittura penultima. Se ci fosse stata l’eliminazione anche allora sarei stato eliminato. Poi però la canzone divenne molto popolare. Così come successe con Cosa resterà degli anni Ottanta, che a Sanremo si piazzò nella parte bassa della classifica. Sul palco dell’Ariston non è mai andata bene. Poi, per fortuna, il gradimento è sempre stato migliore dei risultati della gara. E in realtà è successo lo stesso quest’anno con Come una favola, che è stato uno dei pezzi sanremesi più trasmessi in radio. Hai attraversato quattro decadi di musica, dagli anni Ottanta a oggi: cosa è cambiato? La differenza vera è che la musica, andando di pari passo con quello che succede nel mondo dal punto di vista sociale ed economico, verso la fine degli anni Ottanta è entrata in una fase di crisi epocale. Dagli anni Cinquanta a parte degli Ottanta, la musica ha creato novità sotto qualsiasi aspetto: strumenti usati, tecnologie, modi di esprimersi. I concerti e gli eventi muovevano masse giovanili capaci anche di cambiare l’opinione pubblica o le scelte politiche. Oggi, come le proteste di piazza, anche i grandi concerti servono a ben poco. Anche le tendenze musicali, quelle vere, sono finite negli anni Ottanta: quello che è avvenuto dopo è solo la ripetizione di quanto era già accaduto. E poi oggi la musica è talmente morta che per arrivare alle persone viene filtrata attraverso lo strumento mostruoso della televisione, con giovani talenti che devono confrontarsi tra loro in una realtà come l’intrattenimento televisivo che è cosa ben diversa dalla vera musica… 51
  • 52. Ecco, stavo proprio per chiederti questo: cosa pensi dei talent show? Di sicuro non favoriscono la creatività, perché tutto deve passare attraverso le regole dell’intrattenimento televisivo. I giovani vengono giudicati solo per la loro voce o per la loro interpretazione, che sono solo due dei tanti aspetti che fanno un grande artista. Pensiamo a Bob Dylan: nell’epoca dei talent non avrebbe avuto nessuna chance. Con la crisi strutturale del mercato discografico, sembra che solo il web possa salvare il settore. Tu che rapporto hai con le nuove tecnologie? Sono estremamente utili per giovani talenti che vogliono cercare un’alternativa alla partecipazione ai talent. Non è una via semplice ma è l’unica alternativa percorribile. In questo i social possono dare un contributo notevole. Il fatto che esistano è molto positivo. È una forma di comunicazione alternativa che in futuro sarà quella prevalente rispetto alla tv e ai vecchi media. Se fossi un giovane e dovessi partire oggi con questo mestiere, io mi affiderei ai social. 52
  • 53. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di F. Q. | 30 giugno 2015 Comunicare la musica, una professione (anche) da studiare Piccola storia di un Master Universitario che ha creato un percorso per chi vuole “muovere” le canzoni, lavorando nell’industria dei suoni (di Gianni Sibilla) di Gianni Sibilla Direttore del Master in Comunicazione Musicale dell’Università Cattolica e giornalista musicale “Che lavoro fai?” “Lavoro nella musica” “Ah, allora ti diverti” “Si, certo. Ma è lavoro”. Se sognate di diventare professionisti nel campo, preparatevi a queste reazioni. Se già ci lavorate, avrete avuto almeno una volta una conversazione del genere. È uno dei grandi miti della musica: si basa solo sulla passione, sul divertimento, sulla pancia, e non solo sulla testa e sulle competenze. Assieme ad un altro grande luogo comune: “Il lavoro della musica si impara sul campo”. Ogni lavoro si impara sul campo, certo. Ma in quel campo bisogna arrivarci, e preparati. La passione spesso non basta. Come per ogni professione, c’è tanto da imparare studiando, confrontandosi e facendosi guidare dagli esperti del settore. Da anni, alla Cattolica di Milano, abbiamo messo in piedi un luogo dove la musica è davvero lavoro, dove la passione si incrocia con la professione, studiando e facendo pratica per imparare i meccanismi e i segreti del settore. Questo luogo si chiama Master in Comunicazione Musicale, è un corso post- 53
  • 54. laurea che si occupa di insegnare un particolare campo del lavoro musicale: il mestiere di chi “muove” la musica e la fa arrivare ai media e agli ascoltatori. Uffici stampa, discografici, promoter, redattori di media musicali, comunicatori e distributori digitali. A me piace dire che la musica non ci arriva mai per caso, soprattutto oggi: dietro un album, una canzone, un concerto, un videoclip, un passaggio in radio, un post, un tweet, un articolo, c’è sempre qualcuno che ha pensato come farci arrivare quell’artista, ha lavorato per raccontarcelo, ha progettato come metterlo in contatto con il pubblico usando il canale migliore. Al Master in Comunicazione Musicale insegniamo quei mestieri lì, da 15 anni. Raccontiamo la storia della musica, le tecniche della comunicazione, i meccanismi dell’industria e del digitale, mettiamo alla prova in laboratori, si impara a scrivere comunicati stampa, a fare progetti di comunicazione, strategie di marketing per dischi, concerti, artisti e così via. Quando è nato il Master Musica non esistevano neanche i “Master” (poco dopo è diventato un titolo con un valore legale: equivale a un anno di università). In accademia si parlava poco di musica pop e rock. Se ne parla poco tutt’ora, in realtà: nel sistema accademico italiano c’è storicamente una ritrosia verso la cultura popolare, si pensa che sia solo intrattenimento, la musica è “leggera”, che non vale la pena di essere studiata… Invece sappiamo bene che non è così: il pop, il rock, tutta la musica è cultura. Ma il nostro corso fu il primo in Italia a permettere di studiare il mondo della musica in maniera organica, e a pensare ad un percorso professionale per lavorare nel settore, creando delle competenze che poi servano davvero alle aziende, con cui lavoriamo da anni e che ci “prestano” i docenti, e che accolgono gli studenti per gli stage. Serve un Master, per lavorare nella musica? Dipende. Non tutti i master servono, alcuni sono generici, non garantiscono neanche uno stage o un percorso chiaro. Ma un Master può essere un valore aggiunto. Noi facciamo in modo che lo sia: ci occupiamo solo di un settore specifico che conosciamo bene, diamo competenze, facciamo formazione non soltanto accademica, garantiamo stage a tutti i nostri studenti, li mettiamo in contatto con i migliori professionisti del settore. (Se vi interessa la questione, qua ne parlo più diffusamente) 54
  • 55. Quindici anni dopo: quasi 400 studenti (e altrettanti stage). Molti di questi ragazzi li incontro ancora molto spesso: il mio altro lavoro, oltre dirigere il Master, è quello di giornalista musicale. Ex studenti sono diventati amici e colleghi che fanno gli uffici stampa, i discografici, e così via. Qualcuno ha cambiato strada, dopo un po’, come succede per ogni percorso professionale. Ma diversi vengono anche a tenere lezioni al Master, perché ora sono loro che insegnano a me, e agli studenti. E questa è la miglior prova che abbiamo fatto qualcosa di buono e di utile. 55
  • 56. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Domenico Naso | 1 luglio 2015 Giovanni Caccamo: “Sicurezza in ciò che si fa, autenticità e voglia di mettersi in gioco. Ecco cosa serve per sfondare nella musica” Lanciato da Franco Battiato e ora prodotto dalla Sugar di Caterina Caselli, la parabola del giovane cantautore siciliano è un esempio paradigmatico di quanto, oltre al talento, serva una dose massiccia di caparbietà per farcela in un mondo sempre più complicato come quello dell’industria musicale La parabola artistica di Giovanni Caccamo, cantautore venticinquenne e vincitore dell’ultima edizione del Festival di Sanremo tra i giovani, è un esempio paradigmatico di quanto, oltre al talento, serva una dose massiccia di caparbietà per sfondare in un mondo sempre più complicato come quello dell’industria musicale. Prima di arrivare all’Ariston, il ragazzo lanciato da Franco Battiato e ora prodotto dalla Sugar di Caterina Caselli, ha tentato la strada dei talent show, si è inventato il Live at Home, con oltre sessanta date in giro per le case di tutta Europa, e ora si gode il successo con un approccio maturo e disincantato, ma senza perdere il gusto di fare musica che lo ha portato, un giorno d’estate di qualche anno fa, a intercettare Battiato in spiaggia e a consegnargli il CD che ha dato il via alla sua carriera. Serve anche un po’ di faccia tosta per sfondare in questo mestiere? La questione è trovare metodi alternativi per proporsi. Serve sicurezza in ciò che si fa, studiare tanto e avere il coraggio di farsi avanti. 56
  • 57. Avevi anche provato la strada del talent. È servito a qualcosa? Cinque anni fa avevo fatto un tentativo non andato a buon fine ma che è stato molto utile per farmi capire che dovevo iniziare a scrivere. È sempre più complicato riuscire a trovare qualcuno che scriva canzoni per te. Poi ti sei inventato la formula dei live a casa della gente… L’idea è nata dopo aver aperto i concerti di Battiato. Non avevo pubblico né soldi per un tour e ho lanciato un contest online e chiunque aveva un pianoforte in casa poteva candidarsi come palcoscenico del live. Alla fine ho fatto sessanta date in tutta Europa. Anche adesso, all’interno del tour teatrale, ci sono quindici date di Live at Home, di cui cinque per beneficenza. L’intenzione è sempre quella di creare un dialogo diretto con il mio pubblico. Il mercato discografico è sempre più in crisi. Tu hai la fortuna (e il talento) di essere sotto l’ala di Caterina Caselli. Come è nato il rapporto con lei e qual è la sua dote migliore? Seguivo la Sugar da quando ero piccolo: era una delle etichette delle quali subivo più il fascino, anche per il tipo di musica che ho iniziato a fare. Pensavo potesse essere la famiglia giusta per me. Ho rotto le scatole al mio manager e sono riuscito ad avere un provino con Caterina. Da lì è nato un grande amore professionale. La marcia in più di Caterina è che è anche una artista, quindi capisce in maniera più profonda le esigenze e le dinamiche di questo mestiere. Sei molto giovane ma hai già una carriera invidiabile. Se un ragazzo ti chiedesse un consiglio per intraprendere la tua stessa strada, cosa gli diresti? La prima cosa è accertarsi di fare questo lavoro principalmente, o almeno inizialmente, per sé, perché se ne ha l’esigenza. Purtroppo oggi la mancanza di punti di riferimentoti porta ad attribuire al successo il valore aggiunto della vita. È sbagliato. La priorità deve essere l’autenticità di ciò che fai. Una volta raggiunto quell’obiettivo, in qualche modo le occasioni un po’ arrivano, un po’ te le trovi. Non bisogna aver paura di mettersi in gioco, anche con metodi non convenzionali. 57
  • 58. FQ Magazine / La Musica è Lavoro di Salvatore Coccoluto | 2 luglio 2015 Federico Zampaglione: “La crisi del settore musicale è alle spalle: oggi se non ci fosse la Rete sarebbe un problema” Per il frontman dei Tiromancino la dimensione live resta uno dei momenti più importanti per chi svolge questo lavoro, sia dal punto di vista artistico che per il sostentamento della propria attività Ha firmato diverse canzoni per il nuovo lavoro di Eros Ramazzotti, Perfetto, uscito a maggio, e quasi contemporaneamente ha spiazzato tutti producendo L’inferno dei vivi, secondo disco del più trash dei metallari italiani: Richard Benson. È nella natura di Federico Zampaglione, cantautore, regista, sceneggiatore e frontman dei Tiromancino, stupire il pubblico e la critica. Da sempre ama rimettersi in gioco, misurandosi con nuove sfide. Proprio in questi giorni ne ha lanciata un’altra: da grande appassionato di boxe, ha deciso di aprire l’agenzia TM Promotion per promuovere il pugilato italiano nel mondo. E ad agosto porterà in Italia l’incontro per il titolo mondiale Silver WBC dei pesi leggeri. Nel frattempo è di nuovo in tour con i Tiromancino per riproporre i brani storici della band con arrangiamenti inediti, accompagnati dai Visual di Dario Albertini e da giochi di luci e scenografie. Per Federico, infatti, la dimensione live resta uno dei momenti più importanti per chi svolge questo lavoro, sia dal punto di vista artistico che per il sostentamento della propria attività, anche se è convinto che la crisi del mercato discografico sia superata e la Rete sia ormai un’indispensabile risorsa per la musica. 58